Remake di Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa, una delle sue eccezionali ed eccentriche incursioni nel noir (con Cane randagio e I cattivi dormono in pace), a sua volta tratto dal romanzo Due colpi in uno del maestro americano del genere Ed McBain.
Denzel Washington, fresco di Palma alla carriera (e a sorpresa), è un re di New York, David King: il suo regno è quello della produzione discografica black, in leggera remissione rispetto a vent’anni prima. Si capisce che il suo anno d’oro è stato il 2004, con quattro pezzi in top ten, e lasciamo agli esperti operare il riconoscimento mitografico, che però andrebbe fatto perché l’enciclopedia, l’inside joke, è la chiave essenziale del film. Moglie filantropa, figlio talento del basket e aspirante producer, attico all’Olympia Dumbo con vista sul ponte di Brooklyn, Rolls Royce. Progetta di ricomprarsi una quota azionaria della sua etichetta (Stackin’ Hits, pezzi potenti) per non venderla alla concorrente Stray Dog (il titolo internazionale del film di Kurosawa) e sperperare la sua missione artistica, ma riceve una telefonata che gli chiede un riscatto faraonico (17.5 milioni di dollari in franchi svizzeri) per il rapimento del figlio. L’incauto criminale però ha preso per sbaglio il figlio del suo autista-tuttofare Paul, stessa radice nel Bronx e un po’ avanzo di galera.
Kurosawa metteva al centro del suo film l’arroganza del capitalismo (l’azionista cannibale Gondo, Toshiro Mifune, è in aperto contrasto con il consiglio di amministrazione che vorrebbe esautorarlo), il conflitto di classe (l’autista è un servo che implora il Padrone), il dilemma morale (pagare o non pagare per l’eredità filiale di un altro? difendere la vita umana come valore assoluto o la ricchezza e la famiglia del singolo?), il disagio metropolitano (il quartiere dei tossici dove si rifugia il rapitore) e il noir. Qui David e Paul sono stretti da una black brotherhood che non sembra lasciare alcun dubbio, il rovello personale è risolto in poche scene, la speculazione finanziaria è subordinata all’attenzione editoriale, la geografia cittadina è romantica (un Bronx che esiste, ormai, soltanto nella filmografia del regista), la trama di genere (tra GPS che smettono di funzionare, inseguimenti un po’ goffi e scoperta del colpevole grazie all’orecchio musicale) fievole.
L’adattamento, e aggiornamento, più interessante è senz’altro quello che trasforma la costruzione dell’opinione pubblica del Giappone degli anni ’60 nel panopticon dei social network contemporaneo. La sensazione è che il canovaccio narrativo serva a Spike Lee per dire, e mostrare, altro. Prima di tutto una museificazione della cultura black, di New York e del suo stesso cinema.
La sua casa-m(a)us(ol)eo è una blackness wunderkammer, con pezzi eccellenti (provenienti dalla sua collezione privata) di ogni forma espressiva e performante: quadri di Basquiat, prime edizioni incorniciate di Toni Morrison, dischi celebrativi di ogni espressione metallica (almeno dall’oro al platino…), feticci sportivi (appena meno mortiferi che in Kind of Kindness di Lanthimos). Anche in questo caso l’attenzione e la memoria dello spettatore si fa piccola di fronte all’opulenza delle tracce, e non riesce a rendere ragione del disegno complessivo. Che pure andrebbe, ancora, fatto, perché il catalogo è un’altra chiave del film. E forse la sovrabbondanza di segni senza senso è davvero la costante di questo Festival (Ari Aster, Julia Ducournau, Lynne Ramsay, Wes Anderson).
David King, per risolvere il suo dilemma, si rivolge direttamente a Stevie Wonder e James Brown, ritratti fotografici incorniciati e fantasmi di posizione civile: cosa avresti fatto tu? Ma, idealmente, pone la stessa domanda a tutti i soggetti autoriali con cui ha arredato (tra design e testimonianza permane una certa differenza…) la casa, e da tutti è certo di trarre la stessa risposta: Do get Right Thing.
New York è una linea della metropolitana e i cartelli (city brand marketing) esposti dentro i suoi vagoni, l’orgoglio identitario portoricano e l’orchestra di Eddie Palmer, gli Yankees (Let’s go Yankees, come ne La 25° ora, ma c’è una favolosa scena di baseball anche in Cane randagio). E la gentrification è diventata, tutto sommato, accettabile. I personaggi di tutto il cinema di Spike Lee hanno costruito un impero (che fa concorrenza, discografica, a quelli di Atlanta) e sono diventati ricchi, come Spike stesso (e Denzel Washington).
Si respira un gran senso di ritorno. Almeno uno, al classico, in questa edizione di fughe entropiche verso la dissoluzione della forma e del racconto è francamente confortevole, anche nell’indulgenza al commento sonoro, nella scrittura e nella costruzione dei personaggi facile (più che semplice). Come in confort zone stanno gli spettatori che riescono a riconoscere l’infinita seminazione di mollichine che rimandano all’industria culturale americana.
Il produttore, che ha il migliore orecchio, allontana da sé il colpevole Yung Felon (l’hip hop come lo immaginano tutti quelli che non ascoltano tutto l’hip hop, maschilista e con il twerking) per abbracciare Sula, petite Rihanna, rhyhtm anda blues di classe.
E sarebbe bello se lo stesso accadesse per l’idea di cinema che Spike Lee ha sempre rappresentato rispetto a tante cose viste al Festival quest’anno.
Ma Yunf Felon è A$ap, compagno di Rihanna, che riempirà le sale di Spike Lee di adolescenti.
Il titolo di lavorazione del film, High and Low, era quello della distribuzione internazionale dell’originale di Kurosawa. Qui siamo un po’ di più. E di meno.