Il cinema semplice e minimale del regista tedesco Christian Petzold poggia su un mistero destinato a rimanere inesplicato. Questo suo ultimo film, come i precedenti Il cielo brucia e Undine - Un amore per sempre, ha una forma piana, evidente, e si offre allo spettatore come un testo da guardare e interpretare.
La trama è quasi inesistente, con una ragazza in crisi che chiede di essere accolta nella casa della donna che l’ha soccorsa dopo l’incidente stradale in cui è morto il suo fidanzato e qui, in un'idilliaca campagna tedesca, intreccia una relazione che coinvolge anche il marito e il figlio della donna e un evento traumatico nascosto nel passato della famiglia…
Petzold non dice nulla esplicitamente, piuttosto suggerisce e insinua: inserisce improvvisi stacchi di montaggio che anticipano svolte narrative; usa lapsus nelle conversazioni per far riemergere il rimosso dei personaggi; prende oggetti e canzoni (vestiti, tazze, bottiglie, un pezzo anni ’70 The Night di Frankie Valli) e li fa tornare di continuo in modo geometrico, variandone la posizione e la funzione mnemonica; trasforma il paesaggio (strade, case, giardini, cortili) nello spazio scenico della finzione definendo traiettorie fisiche che replicano le modulazioni dell’anima…
Limpido come un classico hollywoodiano, il film mostra la realtà fenomenologica per quello che è, visibile e invisibile al tempo stesso, sospendendo un mondo semplice e pacificato su un orrore sempre possibile. Il realismo minimalista della messinscena viene così rotto da eventi improvvisi (un incidente fuori campo, uno scoppio di violenza o desiderio), salvo ricomporsi immediatamente, dal momento che il dolore è mostrato fin da subito (il possibile suicidio della giovane protagonista) e poi è ripreso in altre forme e altri modi (un altro suicidio, un’altra donna…) che vanno a comporre come un meccanismo a incastro la struttura stessa del racconto, la sua ragione d’essere.
Tutto è in superficie, in Miroirs No. 3 (e in generale nei film di Petzold), tutto è chiaro e insieme inesplicabile, perché la superficie evidente delle cose è mossa dalle trame imperturbabili dell’inconscio. Ancora una volta non c’è niente da capire, come in realtà non ci sarebbe niente da scrivere, tanto il senso del film e il suo mistero sono compresi e compressi nella sua forma, nella sua semplicità e necessità.
Del resto, le due protagoniste di Miroirs No. 3 si conoscono ancora prima di conoscersi, scegliendosi in un rapido e inesplicabile scambio di sguardi; si usano e si fruttano a vicenda per salvarsi dai rispettivi traumi (dopo un’inevitabile rottura che pone una delle due di fronte allo scaccio dei propri desideri) e così facendo salvano il film stesso dal proprio disequilibrio, collegando nel finale la prima e l’ultima scena nel segno della ricomposizione di una mancanza (un maglione forato, una borsa persa, una porta aperta e chiusa…).
Il metodo di Petzold è una forma di rispetto verso lo spettatore, verso la sua attenzione e la sua intelligenza: per amare Miroirs No. 3 basta guardarlo. E se oggi un film così semplice risulta così bello, viene da chiedersi perché. Cos’è, in fondo, che rende il cinema classico così rivelatore? È la sua dimensione mitica, la sua universalità, o il fatto che, sommersi da immondizie postmoderne, ci sembra la rivelazione di una verità dimenticata?