Una famiglia in auto, nel buio della sera. Un uomo al volante, il signor Azizi, la moglie incinta gli sta accanto, dal sedile posteriore sbuca la figlia vivace e chiacchierina, entusiasta per l’imminente nascita di un fratellino, sul fondo si intravedono degli animali che incrociano le luci e i tragitti di altre auto. Dopo qualche momento, un tonfo, l’auto ha investito un cane. Un piccolo incidente. Il padre si illude di aver risolto il problema, ma poco dopo la macchina si ferma di nuovo. Sceso, vede un magazzino aperto e chiede all’uomo che sta trafficando lì davanti, Vahid, dove sia un garage. Nell’ombra della sera quest’ultimo crede di riconoscere una voce, il cigolio di una gamba artificiale, l’incertezza del passo claudicante: e se quello di fronte a lui fosse davvero, così come i sensi gli stanno dicendo, l’aguzzino che per mesi lo ha torturato in carcere, vantandosi di avere perso la gamba in Siria? Basta il cigolio sinistro di una protesi a identificare e condannare un sospettato? Nell’incertezza Vahid lo rapisce e cerca di farlo confessare, ma, per fugare il dubbio e trovare sostegno, decide di sottoporlo alla memoria e al giudizio di altre persone che pur non conoscendosi hanno condiviso l’esperienza orribile della reclusione e delle violenze, fisiche e psicologiche: c’è chi ne ricorda la voce, chi l’odore del sudore, chi le cicatrici sulla gamba sana: nessuno l’ha mai visto in faccia.
Per la prima volta dopo 15 anni non mette in scena sé stesso, Jafar Panahi, abbandona l’autofiction, eppure in Un simple accident c’è tutto il peso dell’esperienza diretta con il regime, e soprattutto, emerge nell’amarezza di certi scambi di battute, dei sette mesi passati in carcere, tra luglio 2022 e febbraio 2023, solo una parte dei 6 anni richiesti dalla corte di Teheran nel 2010. Un simple accident è un film politico e diretto, immaginato però con una vena ottimistica che può sembrare quasi distopica, tratteggiando un contesto dove le donne portano i foulard dai colori più luminosi, coi nodi allentati, e l’aria in generale sembra essere di distensione se non di apertura a un tuttora inimmaginabile cambiamento. Un contesto dove un piccolo incidente come quello del titolo può aprire una crepa nelle strutture di autoconservazione del regime iraniano, una frattura attraverso cui emerge una campionatura simbolica di voci della società civile (l’artigiano, la fotografa, la sposa col marito, il giovanotto facile a infiammarsi), serpeggia il dilemma di come reagire ed eventualmente punire chi ha gestito il potere con violenza, un giorno che la crepa dovesse diventare irrichiudibile.
E in questo processo lungo un giorno, Panahi non rinuncia a guardare al cinema di genere o al teatro dell’assurdo per costruire tanto il ritmo stringente quanto i momenti di alleggerimento. Se il Godot di Beckett è citato esplicitamente mentre la compagnìa di vendicatori è in un’area completamente deserta, con solo un albero a dare la misura dello spazio, il meccanismo di agnizione dell’aguzzino è il medesimo de La morte e la fanciulla di Polanski, e il furgone di Vahid si riempie progressivamente di persone dai temperamenti più disparati, letteralmente sedute sul corpo incosciente del presunto torturatore, mentre attraversano la città, come poteva accadere sulle diligenze o nelle carovane di Ford o di Hawks.
I passaggi più intensi, però, hanno un’assolutezza formale dettata da un partito luce/ombra nettissimo, artificiale, enfatizzato dalla luce rossa degli stop dell’automezzo. Una prima volta il lume colorato investe Azizi, ritagliando la sua sagoma nella notte, quando ancora lo spettatore è legittimato a credere che il pater familias sia l’“eroe” del film, o perlomeno, un personaggio positivo. La seconda volta la luce rossa isola e rileva l’uomo nell’ombra della sera successiva, nel momento del confronto decisivo con gli unici due delle sue ex-vittime che decidono di arrivare in fondo a queste “24 ore per l’aguzzino”, dopo che l’incontro inatteso con la moglie e la figlia di Azizi ha mandato in crisi la necessità di una vendetta, evidenziando i danni collaterali della violenza reiterata: insieme a Vahid è rimasta Shiva, la fotografa che spavaldamente ostenta il capo nudo e la zazzera corta. Non sarà un azzardo mettere quella luce rossa in relazione proprio con la pratica della fotografia, perlomeno di quella analogica, con il passaggio dal negativo alla stampa del positivo: in questo caso è la luce in cui si sviluppa e rivela lentamente, non senza resistenze, l’identità del personaggio, che passa dal respingere tutto quello che gli viene imputato, al crollo, alla confessione di una responsabilità distinta dalla colpa che ricorda tanto quelli che eseguivano solo gli ordini.
Ma è nella chiusa, dove recupera la luce diurna, naturale, che Panahi sintetizza al meglio l’impossibilità di risolvere il dramma, di guarire il trauma; là dove l’immagine non può dire più di quanto abbia già fatto, rientra in gioco il suono, ambiguo, inquietante, e nessuno può dire se sia l’eco inesauribile del passato o l’inizio di una sua reiterazione.