Ci sono storie talmente paradossali che nascono già con la qualità di un film. Grosso modo era quanto affermava Pirandello nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia che accompagnava Il fu Mattia Pascal, quasi per giustificarne la bizzarria dell’intreccio. Possedendo in sé tale innata peculiarità, il rischio è di elaborare quella stessa storia e di turbarne un equilibrio già perfetto. È ciò che succede all’eccentrica vicenda raccontata in Kim’s Video, documentario che David Redmon ha fortemente voluto perché frutto di un’ossessione personale e realizzato con la collaborazione di Ashley Sabin. Il cinema ci ha spesso mostrato traiettorie assurde e insondabili, penso ad esempio a un film come Metropolis, perso nella sua versione integrale in Germania e ritrovato solo moltissimi anni dopo in Australia o in Argentina, a seconda delle versioni, oppure alla vicenda dei film perduti ritrovati sotto una pista da hockey in Canada di cui parla Dawson City. E altrettanto straordinaria è la parabola di Kim’s Video, la catena di videonoleggio fondata a New York nel 1987 dall’immigrato coreano Yong-man Kim, il cui immenso catalogo, circa 55mila copie tra VHS, DVD, bootleg e rarità, è stato donato, alla chiusura del negozio nel 2008, al Comune di Salemi, in provincia di Trapani, ai tempi in cui Vittorio Sgarbi vi svolgeva mansioni di sindaco. Kim’s Video, il film, non il negozio, è la storia di un viaggio alla ricerca di quella sterminata collezione, iniziato come un omaggio agli anni dell’adolescenza del regista e trasformatosi in funzione degli eventi prima in un’indagine, poi, addirittura quasi in un servizio di denuncia della negligenza con cui si preservano i patrimoni cultu(r)ali.
Sono appunto tre le parti attorno alle quali si struttura tutto il film. La prima, nostalgica, mostra una New York ancora in clima New Wave attraverso immagini d’archivio del negozio e dell’intera città, intrecciate alla voce narrante del regista che sedimenta i suoi pensieri, man mano diventati assillanti, attraverso una coscienza cinefila, sostanziata dall’utilizzo di sequenze di film che rendono icastici i suoi ragionamenti, le sue reazioni e le sensazioni provate in quell’epoca d’oro in cui era tesserato nel negozio di Kim. Abbondano gli aneddoti, come quello che pretenderebbe i fratelli Coen debitori di ben 600 dollari dovuti al ritardo nella consegna dei video, o quell’altro che racconta delle frequenti visite dell’FBI a causa della distribuzione illegale di copie rarissime, sogno per appassionati, ma irrimediabilmente illegali, piratate e fascinosamente clandestine. E si incontrano nelle interviste agli ex commessi anche volti noti, come il regista Alex Ross Perry (misconosciuto da noi, ma piuttosto attivo: qualora voleste, su Mubi potreste vedere i suoi Queen of Heart e The Color Wheel) e il direttore della fotografia (per Perry, per un corto di Sean Baker ma anche per i fratelli Safdie) Sean Price Williams, quasi a confermare il fermento artistico ruotante intorno al negozio.
La seconda parte è un mutamento radicale di ambientazione e di toni, perché si passa dalla ricostruzione di un periodo all’indagine nel pieno sole della Sicilia, dal clima livido di una blank generation appena conclusa allo scacciapensieri di compare Turiddu. È ancora un documentario ma la commedia di costume lo fagocita, suo malgrado: prevale l’atmosfera grottesca e vernacolare, in cui comico, tragico e sciatto si mescolano fino a diventare un nucleo unico e indistinguibile. Divertente, certo, ma anche imbarazzante, per chi la guarda dalla prospettiva nostrana e si pone il problema di come ci possano vedere altrove. Redmon, il regista e cercatore del tesoro perduto, anche senza volerlo, si trasforma in un alieno giunto su un pianeta sconosciuto, sul quale le forme di vita comunicano a fatica perché ignorano l’inglese e sottovalutano l’enorme tesoro che dovrebbero custodire, relegato mestamente in un magazzino pieno di infiltrazioni e umidità, abbandonato all’incuria e all’indifferenza. È in questa fase che si alimentano tutti quelli che nella fiction sarebbero ritenuti luoghi comuni se non fossero così tristemente veri, arrivando anche ad adombrare l’infiltrazione mafiosa che si affianca alla politica spettacolo, in un ritratto impietoso che pare non aver dimenticato proprio nulla e che ha nell’accumulo la sua reale ragione di funzionamento.
In questa situazione lunare sarebbe sufficiente osservare ciò che succede e invece il regista ha la presunzione (o l’ingenuità) di andare oltre ― ed è in questo che risiede il grosso limite del film ―, pensare di poter aggiungere a una vicenda che aveva già tutto per reggere drammaturgicamente l’invenzione di un finto trafugamento dell’intera collezione per riportarla al vecchio, legittimo proprietario, Kim, ormai sereno residente del New Jersey. Nelle intenzioni dovrebbe essere l’apoteosi della cinefilia, perpetrata coreograficamente da personaggi mascherati da celebri registi, con tutta probabilità gli idoli di Redmon (e un po’ di tutti, a dire il vero: Hitchcock, Godard, Maya Deren, Herzog, Agnes Varda, Jarmusch ecc.), in realtà è una sequenza pacchiana che rompe il flusso di una verità ancora più attraente della sua traduzioni in immagini video. Perché è vero che in Italia abbiamo un problema a sviluppare delle sceneggiature credibili, ma solo perché la realtà è talmente fantastica che forse basterebbe solo stare fermi a guardarla.