In Palazzina LAF, esordio alla regia di Michele Riondino (tarantino di nascita e ai tempi degli eventi raccontati dal film nemmeno ventenne), ci sono una rabbia, una foga, un senso d’ingiustizia e insieme di rivalsa che fanno del film un oggetto piuttosto singolare. Un film sull’Ilva del Gruppo Riva, ambientato a metà anni ’90, durante la stagione dello smantellamento della più grande acciaieria d’Europa: dunque un film sul mondo operaio, sulla sua crisi e la sua fine, osservate dalla prospettiva distorta e illusoria di un traditore, naturalmente nel nome di Elio Petri e nel solco del destino di una classe operaia che questa volta va letteralmente in paradiso, salvo scoprire che si tratta, se non proprio di un inferno, sicuramente di un purgatorio.
Lo stesso Riondino – con un look, un piglio e un paio di baffoni che lo fanno somigliare a Favino – è l’operaio addetto alla bonifica delle vasche Caterino Lamanna, arrogante, grezzo, non esattamente una cima, abituato da sempre a sgobbare e con il sogno di lasciare la casa di campagna dove vive con la fidanzata romena e di trasferirsi in città. L’occasione arriva quando la direzione dell’Ilva, nella persona del viscido capo del personale Giancarlo Basile (Elio Germano), gli offre la promozione e il trasferimento in un’ala in disuso della fabbrica, la Palazzina LAF, dove una settantina di impiegati in esubero, operai ma anche e soprattutto ingegneri, informatici e amministrativi, è stata confinata e lasciata a vivacchiare per essere spinta alle dimissioni o ad accettare un umiliante cambio di mansione pur di tornare a occupare le ore della giornata. In questo purgatorio di lavoratori senza nulla da fare, costretti a passare il tempo giocando a ping pong, pregando, disperandosi, meditando vendetta, Lamanna ha il compito di rivelare a Basile tutto ciò che succede: riunioni sindacali, scherzi telefonici, insulti alla direzione, lettere di protesta alle autorità… Felice dell’aumento di stipendio e del riposo a tempo indeterminato, né si preoccupa della questione morale, né si accorge del “confino in fabbrica” messo in opera alla Palazzina LAF, tra mobbing e ripetute violazioni della dignità dei lavoratori (accuse per cui i Riva saranno condannati negli anni a seguire), convinto com’è di essere in credito con la fabbrica e con il mondo e di meritare il misero ufficio conquistato tra le stanze in disuso e le scartoffie abbandonate.
Caterino Lamanna è la coscienza annichilita di una classe, è il punto di vista sbagliato da cui guardare la tragedie in corso, l’operaio che ha perduto qualsiasi tipo d'attaccamento al lavoro e pensa solo a sopravvivere, più vicino alla disperazione di una figura comica in cerca di una compensazione (alla Chaplin, per intenderci) che all’ambiguità di Lulù Massa.
Ad avvicinare il film al modello di Petri è soprattutto lo stile, che è nervoso, isterico, talvolta frettoloso, con le musiche tonitruanti di Teho Teardo a creare atmosfere da thriller o da macabra fiera di paese (molto bello l’inizio con il funerale di un operaio intervallato dai mosaici di una chiesa che esaltano il lavoro in fabbrica) e la deformazione violenta dei rapporti umani (tra capi e lavoratori, sindacato e assistiti, operai e nullafacenti) a spingere verso la caricatura grottesca di un mondo in decomposizione.
È evidente che per Riondino – regista, attore, anche sceneggiatore con Maurizio Braucci – si tratta di fare i conti con la propria città, con il proprio retroterra e la propria storia, sia privata che collettiva: il suo personaggio di delatore ottuso, significativamente e un po’ didascalicamente lasciato senza redenzione, è il prodotto di un sistema, è colpevole e insieme inconsapevole, con un passato da sfruttato, un presente da verme e un futuro uguale in tutto e per tutto a ciò che è venuto prima, solo più solo e disperato. Come gli stabilimenti dell’Ilva, del resto, un gigante che, come dice uno dei protagonisti del film, l’ingegnere umiliato Aldo (Michele Sinisi), «produceva la ricchezza per altri», lasciando ai lavoratori solamente la merda.