La notte è squarciata dalle sirene di un allarme, la città è illuminata a giorno dalle fiamme. Il piccolo Mahiro salta giù dal letto, intuisce che sua madre è in pericolo: l’ospedale dove lavora è stato appena bombardato. La Seconda Guerra Mondiale irrompe in scena dall’inizio, si incarna in un segno – di stile e di immaginazione – che definisce e inquadra da subito l’ultimo film di Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone. Mahiro supera il padre e la squadra di soccorsi che tenta di intervenire e corre impotente verso il luogo della tragedia, di un lutto destinato a segnarlo. Nel tripudio funereo delle fiamme il ragazzo si muove con tutta la velocità possibile, una velocità che piega e deforma la purezza del suo disegno. Come giustamente scrive Enrico Azzano, “nel tradire la sua linea chiara, Miyazaki ci (ri)porta in quella dimensione storica e personale che aveva sempre colorato, abbellito, trasfigurato, collocandosi non solo al fianco del suo mentore e poi sodale Takahata, ma anche assai vicino a Shinya Tsukamoto e alle sue recenti e straordinarie riflessioni sulla brutalità della guerra”. Miyazaki recupera un’idea di movimento che tende all’astrazione – Takahata, appunto, e le corse della sua principessa splendente – e a un’emotività che si trasforma in energia cinetica dell’immagine. Il suo stile così perfettamente riconoscibile si piega alle curve del racconto e della memoria mettendo in scena, in medias res, il dramma della guerra che attraversa da sempre il suo cinema.
In Il ragazzo e l’airone, l’ennesimo ritorno dopo l’ennesimo ritiro, Miyazaki sembra voler fare i conti, del resto, con l’intero corpo della sua produzione artistica, sospeso tra frammenti di autobiografia e narrazione intrisa di una fantasia irrefrenabile, libera, quasi psicanalitica. Seguiamo Mahiro nella sua nuova casa lontana da Tokyo e dagli orrori bellici, il suo dolore che ancora lo lascia attonito, poco incline alle dolcezze elargite dalla nuova moglie del padre (la sorella della madre morta) in attesa di un bambino e delle sette vecchine che si occupano della casa e di lui con una cura affettuosa che rimanda ai sette nani disneyani.
Il ritmo del film è placido, ostentatamente sospeso e a tratti funereo, pronto a esplodere nel procedere della storia. Mahiro incontra un airone che sembra volersi rivolgere direttamente a lui: l’uccello lo segue, lo punzecchia, lo ferisce, sembra trasformarsi sotto i suoi occhi in una creatura antropomorfa, tra l’amichevole e l’inquietante. Sarà lui, fornendogli la speranza di un nuovo contatto con la madre, a trascinarlo in un mondo parallelo, dove Miyazaki mette in scena ossessioni e paure in un gioco ricorrente di contrasti e dicotomie – animale/umano, solido/liquido, grande/piccolo, unico/molteplice, vecchio/giovane – che getta un ponte sul più irriducibile dei conflitti, quello tra vita e morte.
La guerra, il volo, il lutto, la crescita, la mutazione sono tutti elementi che permeano la riflessione – etica ed estetica – di Miyazaki. In Il ragazzo e l’airone affiorano omaggi e autocitazioni, richiami e ricordi (forse rimpianti) per un mondo in estinzione, destinato a reggersi sul precario equilibrio di un pugno di sassetti geometrici sul punto di cadere. Costretto a vivere sull’orlo del baratro, sempre aggrappato alla fantasia di una possibile rinascita. La purezza dell’immagine – a volte consapevolmente incrinata ma sempre pronta a regalare squarci di impensabile lirismo estatico – si sovrappone a una narrazione criptica, che asseconda l’effetto domino di una continua associazione di idee in costante movimento. La ricomposizione finale per Mahiro avviene attraverso un percorso atipico di crescita e consapevolezza, di accettazione del lutto, di adesione a una realtà che non è l’unica possibile ma che è quella che ci spetta e che dobbiamo accettare. A ottantadue anni Miyazaki ci dona un film umbratile, malinconico, a tratti persino frammentato e inconcludente, ma che parla una lingua indecifrabile e profonda, che preferisce rivolgersi all’anima piuttosto che alla testa o al cuore: un magma per immagini che affronta la finitezza della vita umana con le armi impalpabili ma affilate del sogno e della poesia.