Una bionda gioca sulla spiaggia. (S)pettinata come Monica Vitti, con lo sguardo tra lo scrutatore e lo sperduto come Monica Vitti, ma non è Monica Vitti: è Alba Rohrwacher nel ruolo di Monica, una donna che soffre di psicosi di Korsakoff (diagnosi del neurologo Elio De Capitani). In lei l'allucinazione si sostituisce progressivamente alla realtà. Su un quaderno bianco come sta diventando la sua mente scrive le battute di dialoghi significativi dei film della Vitti (“Ho l'impressione di scordarmi ogni giorno qualcosa”). Il marito Filippo Timi, angosciato per un indebitamento senza scampo ma devotamente innamorato, accetta di giocare a questo continuo spostamento/sovrapposizioni di identità, perchè la vede felice, anche nel suo progressivo staccarsi dalla realtà quotidiana.
Roberta Torre regista milanese “naturalizzata” palermitana, ha abbandonato (momentaneamente) il suo percorso artistico tra grottesco, musical, folklore e ritratti dal vero “eccentrico” (da “Tano da morire”, 1997, a “Le favolose”, 2022), per un omaggio sui generis a una fulgida stella del cinema non solo italiano. Lo fa senza rinunciare a certe sue caratteristiche di sguardo, sempre vivido di visioni e tagli da filmaker d'avanguardia e di cinefilia colta e raffinata: oltre a tanti film della Vitti con cui il personaggio interagisce con i dialoghi (compresi quelli con Alberto Sordi), appaiono spezzoni che i titoli di coda ci informano da “Le tempestaire” di Jean Epstein, da “Limite” di Mario Peixoto, da “Quando l'occhio trema” di Paolo Gioli. All'omaggio para biografico, si aggiunge però il melodramma doloroso della malattia di una donna, di un amore che si ostina a resistere, con il marito che cerca di nascondere le progressive difficoltà economiche. Ha perso la sua casa in via Archimede, nella città eterna e tanti oggetti suoi cari e preziosi, ma farà di tutto per non turbare l'instabile equilibrio di una malata che alterna allucinazione a sprazzi di lucidità (“La casa di Roma? Voglio tornare là”).
Uno di quei film che coinvolge molto chi lo fa e chi lo interpreta. Non si può non notare la devozione e l'adesione - aderente sino al dettaglio e agli impercettibili cambi di espressione - di Rohrwacher e Timi, mentre si chiede al pubblico di non discutere il fondersi dei vari piani di lettura (dall'identificazione al distanziamento oggettivo, con una continua intercambiabilità tra interprete principale, personaggio della fiction e la biografia della star) e di abbandonarsi all'emotività e alla commozione di un addio verso l'oblio, con il personaggio Monica, abbigliata come da protagonista di “Polvere di stelle”, che vuole andare a inaugurare una visita alla casa di Sordi, mentre la Monica cinematografica la saluta con un montaggio di sue sequenze “mitologiche” dai film.
Non possiamo inoltre non segnalare l'impeccabile lavoro del cast tecnico, a partire dai costumi di Massimo Cantini Parrini (“Comandante” e “Ferrari” le sue ultime fatiche), dalle scene di Flaviano Barbarisi, dalla fotografia di Stefano Salemme, per finire con le musiche, rapinose, facili e melodiche di Shigeru Umebayashi.
Ah, ultima cosa: il titolo deriva da una celebre e parodiata (all'epoca) battuta tratta da “Deserto rosso” di Antonioni (ma sospetto che tutti o quasi lo sappiano).