Questa sera su Iris (canale 22) alle 23:25 La Croce di Ferro, film del 1977 di Sam Peckinpah. Abbiamo recuperato (effettuando, purtroppo, dei tagli ed eliminando le note) il pezzo scritto da Paolo Vecchi su Cineforum 173. (Consigliamo vivamente di leggerlo nella versione integrale, disponibile sulla rivista anche in formato cartaceo).
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Pat Garrett nella wehrmacht
La Croce di Ferro è il secondo film "europeo" di Peckinpah dopo Il cane di paglia, ed è anche il primo che il "regista della violenza" ambienta durante un conflitto bellico. In precedenza, soltanto in Sierra Charriba si avvertiva la presenza, indiretta ma acuta, della guerra (in questo caso quella di Secessione), mentre ne Il mucchio selvaggio Pike e compagni combattevano e morivano partecipando privatamente ad una rivoluzione significativamente localizzata nel Messico, per eccellenza spazio altro o dell'utopia.
Per il resto, le sue storie hanno sempre avuto una dimensione individualistica, giocata sulla contrapposizione tra i sopravvissuti di una non più mitica "no man's land", luogo dell'istinto ma anche dell'onore, e l'inarrestabile progredire di una "civilizzazione" tanto più lurida quanto più si sforza di offrire di sé un'immagine necessaria e razionalizzante. [...]
Non è quindi paradossale che il regista dei devastanti effetti delle Colt si sia accostato soltanto ora al genere bellico. La violenza istituzionalizzata, incanalata nelle ferree guide della gerarchia e della disciplina, esula probabilmente dai suoi interessi, mentre gli mancano sicuramente lucidità e cultura per dare corpo ad un discorso non raffazzonato su questo argomento già troppe volte affrontato dal cinema.
Ora, è certamente vero che i produttori europei che hanno affidato a Peckinpah il compito di portare sullo schermo il romanzo "Das Geduldige Fleish" di Willi Heinrich, volevano realizzare niente altro che un prodotto "di genere", magari fatto meglio, sulla falsariga del successo degli ultimi ponti o delle battaglie nel Pacifico. Ma il sangue non è acqua, e questo straordinario autore, i suoi personalissimi "trade marks", non possono essere costretti nell'ambito angusto della confezione. Fedele ad una sua "linea" tematica, Peckinpah, con La Croce di Ferro, la continua e la arricchisce.
All'inferno senza ritorno
Come al solito in Peckinpah, i titoli di testa, lunghi e curatissimi, assumono un'importanza decisiva (come d'altronde quelli di coda) a determinare il senso complessivo del film.[...] Ma è subito evidente che nel film non c'è nessuna volontà di "fare storia". Tra tutte le coordinate che vengono indicate, l'unica che interessa realmente Peckinpah è quella dello sfacelo, dello sfascio totale di un sistema di riferimenti morali e sociali, della riduzione di tutto al primordiale istinto di sopravvivenza. Se il west è una "no man's land" che presto verrà "civilizzata", il fronte si trova in una situazione simile, ma capovolta: la guerra ha fatto piazza pulita dei "valori" socialmente rilevanti ed ha intaccato lo stesso principio gerarchico. Nessuno, neppure, si badi bene, lo stesso Stransky, crede nel trionfo del Reich millenario o nella supremazia della razza ariana, e l'unico nazista, Zoll, è una figura di secondo piano, un fesso che si fa mutilare da una soldatessa russa (e Steiner lo abbandona alla furia delle compagne). Luogo della precarietà e della morte, il fronte livella le differenze e, nella ripetizione continua della violenza, la rende normale, determinando soltanto una serie di sfumature nell'atteggiamento di fronte ad essa. Attento osservatore della dinamica interna ai gruppi (Il mucchio selvaggio), Peckinpah divide in due tronconi i suoi "uomini in guerra": da un lato il plotone di Steiner, dall'altro gli ufficiali (ad eccezione di Meyer). l componenti del primo, insieme "dirty dozen" e "wild bunch", senza però la gratificazione di un riscatto nel dovere o nella morte, sono mossi da una sconsolata professionalità e da un istintivo vitalismo, trovando nella solidarietà e nell'azione la loro giustificazione morale e narrativa. Gli altri sono soldati comprensivi ma impotenti (Brandt), intellettuali lucidi ma inutili (Kiesel), damerini pavidi e omosessuali (Triebig).
Nel loro rapporto di dare e avere, su cui pesano in modo non marginale ragioni di classe, è subito chiaro da che parte pieghi la bilancia. [...] Sotto questo aspetto, La Croce di Ferro applica, capovolgendolo, lo schema fordiano de Il massacro di forte Apache (e, più in generale, di tutta la "trilogia della cavalleria"). Ford ama Wayne e parteggia per il suo buon senso e la sua umanità, ma rispetta la grandezza delirante e cupa di Fonda-Custer, tant'è che, alla morte di questi, il primo ne assume, oltre al grado, alcuni tic e segni distintivi (l'abbigliamento): tornano i conti dell'ideologia costruttiva "America anni '40". Steiner e Stransky son la proiezione "in negativo" dei due personaggi del grande regista irlandese: sgretolatasi ogni certezza, affondano nel fango di una lurida apocalisse, accomunati in un'autodistruzione in cui si differenziano soltanto nello stile e nell'atteggiamento. Certo, Steiner è istinto, umanità, azione, mentre Stransky è cultura, aridità, calcolo, ma il gioco che stanno giocando è lo stesso, e per entrambi l'unica prospettiva è quella di un suicidio sontuoso. Anche se Steiner-Peckinpah, dall'alto della sua statura morale, può ancora impartire lezioni di cinismo, può ghignare su Stransky bambino, sulla propria morte e sugli orrori del mondo.
The war game
[…] Superati i confini spazio-temporali della vicenda narrata, si proietta metaforicamente sull'oggi, sul Vietnam, l'Irlanda, la Palestina, il Biafra. Più in generale, su tutta una civiltà che conosce continuità solo nella violenza, nel gioco delle parti tra oppressori e oppressi.
In un cosmo governato da un Dio sadico, nello sfascio apocalittico di qualsiasi quadro di riferimento, nell'impossibilità di una palingenesi collettiva, anche il riscatto individuale è precluso. Chi è uomo, chi ha i coglioni (e una sua professionalità), può ancora trovare nell'azione, anche dimostrativa, per sé e per gli altri, il piacere istintivo della violenza. l bambini sono le vittime più indifese della guerra, ma la guerra è un gioco da bambini. Per divertirsi bisogna saperlo giocare, come Steiner, in questo senso, una volta tanto, "born to win" in un universo di perdenti. Questa accettazione della dimensione Iudica della violenza come ultima, disperata thule di una realtà insensata è fatta propria dal regista, che connota autobiograficamente il personaggio.
Tutto è stato detto. rimane ormai soltanto il piacere di raccontare. Peckinpah vi si abbandona in modo cinicamente vergognoso. Grandissimo "story teller", fervente adepto della religione dell'azione, a disagio cogli psicologismi e le esplicitazioni ideologiche, il regista ha costruito uno dei suoi film più perfetti, [...]. Certo non ha rinunciato al "ralenti" come insostituibile strumento analitico di una violenza atomizzata, ma sembra averlo reso meno barocco e, rispetto agli ultimi film, meno gratuito, in un contesto in cui l'uso esasperato ne avrebbe enormemente ridotto l'impatto emotivo.
Il montaggio, diventato più rapido, non lascia quasi spazio a momenti di virile malinconia (cfr. l'incontro padre-figlio alla stazione in Junior Banner); coinvolge e impedisce di pensare. Coburn e Warner, amici di Peckinpah, incarnano alla perfezione rispettivamente la proiezione (anche fisionomica) del regista e il suo possibile "alter ego" esorcizzato. Gli altri (Mason, Schell) non contano, affogati come sono in ruoli obbligati e resi stereotipati da frequentazioni pluridecennali. Aleggia ovunque la presenza del fantasma di un Erich Von Stroheim ignobile, interpretato magari da Emilio Fernandez.