Non per lignaggio, ma Christopher Plummer, nato in Canada nel 1929 e morto nel Connecticut novantuno anni dopo, fu un interprete nobile. Ne conoscete altri? E intendo nobile perché distinto anche quando di servizio, armonioso anche in ruoli spietati o addirittura sadici, con un sublime gusto di segni e di tic attoriali a cui lui stesso non concesse mai il primo piano della ribalta (alla larga dunque dall’esibizionismo e dalla maniera). A questo proposito, mi è sempre parso più affidabile e più sofisticato sia di Laurence Olivier, sia di Richard Burton, laddove il primo confidava quasi esclusivamente su un’eccellenza conclamata e intonsa da star del palcoscenico e il secondo si perdeva spesso in flussi di coscienza fenomenali epperò claustrofobici (soprattutto per sé). Plummer no, capì che il cinema non ammette classi, e che recitare significa in particolare concedere e concedersi. Allora poco importa che vinse l’Oscar tardi: nel 2012, conquistata la statuetta per Beginners di Mike Mills, scherzò sull’età di entrambi – la sua e quella del premio – senza nessuna malizia, era il momento giusto per la parte giusta, almeno secondo il pensiero sistemico dell’Academy.
Sono certo che Christopher Plummer intuì che stare all’angolo, un po’ sullo sfondo, e magari fuori fuoco, è talvolta più gratificante e più significativo di qualunque assolo. Non ebbe pregiudizi, non fece differenza tra produzioni e ambizioni, il suo era un lavoro, ed era un lavoro serio per tutti e per ogni set. Non lasciò mai che l’eleganza diventasse ingombrante e si trasformasse in alterigia, e sapete come poté permetterselo? Nel solo modo con il quale un attore è in grado di onorare il proprio mestiere, abbattendo cioè i muri e sciogliendo le soluzioni di continuità, non per uniformità ideologica ma per semplice ossequio nei confronti di un privilegio, quello di stare sullo schermo, di creare immagini e immaginari, e di creare altresì ammirazione e – non siamo ipocriti – invidia. Plummer si prestò ai più grandi (Robert Wise, John Huston, Michael Mann) con il medesimo decoro prestigioso con cui si mise a disposizione dei migliori artigiani più autoriali (Anatole Litvak, Bob Clark, Peter Hyams, Joseph Ruben, Peter Yates) e dei meno buoni (Peter Collinson, Jean-Claude Lord, Augusto Caminito). Non c’era dunque diversità sostanziale tra un war movie di pura industria come I lunghi giorni delle aquile (1969, Guy Hamilton) e lo Spike Lee di Malcolm X (1992): per Christopher Plummer i film furono tutti uguali, anche quando sembrò cadere come tanti nel trovarobato più dozzinale, più o meno dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, quando rinacque dalle sue ceneri.
E c’è un’altra cosa che mi ha sempre colpito di questo attore così ricercato ma non forzatamente forbito: l’istinto invidiabile a non attardarsi su una sembianza apparentemente affettata e infida, ma anzi a sfruttarla a proprio vantaggio e a vantaggio della carriera. Sono numerosi i suoi villain; il più rappresentativo, il più polimorfo, è il rapinatore psicopatico di L’amico sconosciuto (1978, Daryl Duke), che si traveste da Babbo Natale e da donna per ingannare un impiegato di banca più subdolo di lui. Tuttavia Christopher Plummer riuscì sempre e comunque a sfuggire al marchio, a evitare la catalogazione, e sempre per le stesse ragioni, ossia che non serve separare e distinguere, il cinema non è fatto di alti e di bassi, è una fede, non ci sono né favori né favoritismi, le discriminazioni appartengono ai meschini. A Christopher Plummer bastava uno sguardo, e faceva paura; eppure in quello stesso sguardo, con estrema naturalezza, potevi trovare il conforto e la comprensione: il campo-controcampo conclusivo e in silenzio di Insider – Dietro la verità (1999, Michael Mann), prima che Al Pacino abbandoni definitivamente gli studi della CBS, è lì per dirci una volta per tutte che Christopher Plummer seppe assecondare il cinema comprendendone la preminenza rispetto al protagonismo e all’istrionismo.