Difficile salutare il ritorno in sala, restaurato, di Barry Lyndon di Stanley Kubrick senza diventare iperbolici.
La filmografia kubrickiana è composta di soli capolavori. Tanto che l’espressione stessa “capo-lavoro” smette di avere un senso compiuto, nel suo caso. Tra i tanti titoli che si potrebbero di volta in volta, arbitrariamente scegliere, come quello preferito, salvo cambiarli per gioco ogni anno, c’è di diritto Barry Lyndon. Che però resta uno dei meno compresi, come dimostra il suo esito commerciale. Qualcuno, ma non diciamo chi, lo definì anche un film «inamidato». Pazienza.
Ora, l’ultima cosa sensata da fare per questo film è sperticarsi in rivalutazioni. Non occorre rivalutarlo. Nonostante l’insuccesso al botteghino, resta una delle opere più ambiziose di Kubrick, che probabilmente abbandonò il progetto di Napoleon, a lungo e minuziosamente accarezzato e predisposto, sulla scorta dell’accoglienza tiepida riservata a questo suo film in costume molto sui generis del 1975. Ma il tempo e il buon senso gli hanno reso giustizia.
Infatti non si tratta di uno di quei grandi film che però necessitano di studio, oppure di essere amati incondizionatamente. Assolutamente no. Difficile dividersi su questo film ironico, straniante, divertente, spettacolare, emozionante, sconcertante, perfetto per un’analisi addentrata ma anche godibilissimo sul piano del racconto puro. Il rapporto che intrattiene con il romanzo originale di William Makepeace Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon del 1844, è esemplare, nel senso che la sua perfetta sintesi di valori pittorici, letterari e musicali concorre a una resa filmica ineccepibile. Dunque, lo si può rivedere e apprezzare solo mediante affermazioni iperboliche.
Ad esempio possiamo tranquillamente dire che la sua straordinarietà gli consente di essere in ogni istante anche una lezione di cinema concreta e irripetibile. Detto meglio, si potrebbe studiare la storia e la teoria del cinema semplicemente esaminando ogni scena. Non ce n'è una che non sia anche, implicitamente, una epifania del cosiddetto “specifico” filmico.
Detta così la cosa sembra scontata, oltre che generica. Scendiamo allora più nel dettaglio. Isoliamo un aspetto di questa esemplare magnificenza. Mettiamo da parte i costumi di Milena Canonero, autentici come se fossero stati creati nell’Ottocento, la scenografia di Ken Adams che non ha precedenti, la luce irripetibile delle candele catturata da John Alcott o che spesso e volentieri concorre con l’arte figurativa.
Concentriamoci su un aspetto all’apparenza meno vistoso in questo tipo di film, ammesso e non concesso che esista una tipologia effettivamente in grado di connotare Barry Lyndon. Parliamo del montaggio, firmato da Tony Lawson, che quattro anni prima aveva montato Cane di paglia e due anni dopo Barry Lyndon monterà La croce di ferro.
Insomma, per intenderci, Kubrick si avvale della collaborazione dello stesso montatore di due film di Sam Peckinpah. E già questo dovrebbe darci un’idea del ritmo segreto interno del film, nonostante la sua concezione di una storia immobile, circolare, tragicamente negativa. Il che però non rallenta lo svolgimento perfetto, rapido, ad orologeria del tracciato.
Ogni scena, ogni inquadratura, ogni aspetto di un personaggio, ogni battuta, ogni movimento della macchina da presa è preciso, unico, insostituibile. Inoltre non c’è passaggio da inquadratura a inquadratura che non sia ineccepibile, non costruisca un valore aggiunto in chiave di significato profondo e di impatto emotivo. Ma anche così il discorso potrebbe risultare un po’ vago.
Prendiamo allora una sola scena, a titolo esemplificativo, quella verso la fine del duello con le pistole tra il protagonista e il figliastro Lord Bullington. Nessuno dei due personaggi è simpatico. Non possiamo affezionarci preventivamente a uno piuttosto che a un altro. Bene, sfidiamo qualsiasi spettatore a non accorgersi, al netto di tutti i suoi aspetti audiovisivi che andrebbero studiati minuziosamente, di come l’uso degli stessi primi e mezzi primi piani dei protagonisti, deliberatamente impassibili, tesi, impenetrabili, in virtù della semplice collocazione e ricollocazione nel crescendo drammatico, non suggerisca stati d’animo diversi.
In quei volti, tali e quali prima e dopo, rigorosamente incorniciati in inquadrature strette, taglienti, leggiamo espressioni che variano a seconda di ciò che imprevedibilmente è successo, succede o sta per succedere. In altre parole, se si vuole un saggio approfondito sulla natura umana, le sue luci e le sue ombre, contraddittoria, conflittuale, tragica, basta vedere e rivedere questa scena. Se si vuole anche una conferma del principio del “montaggio sovrano” caro ai cineasti sovietici della grande stagione del muto, non serve aggiungere altro.
La scena poc’anzi descritta molto sommariamente non è che prova attiva, cioè applicata a una vicenda concreta, a un momento storico e a un paradigma filosofico polemico verso l’ottimismo illuminista, del celebre “effetto Kulešov”. Cercate in un testo di cinema o anche solo su Wikipedia in cosa consiste tale esperimento volto a dimostrare la potenza assoluta e autonoma del montaggio, confrontatelo con l’applicazione specifica, pratica, non soltanto teorica voluta da Kubrick, con l’aiuto del suo dinamico montatore, e capirete perché il cinema è quella forma d’arte pragmatica e straordinaria, sopravvissuta nell’immaginario collettivo a ogni tentativo di riscriverne il linguaggio o cancellarne la grammatica elementare.
La complessità, in un grande autore, nasce dall’uso ragionato, mirato e necessario di soluzioni semplici, basilari, spinte al massimo grado dell’eccellenza. Effetto K, come Kulešov. O come Kubrick.