Se ne è andato uno dei più grandi. Non girava un film da vent’anni, e tutti in fondo sapevano che non ne avrebbe più girati nonostante le sceneggiature accumulate, i riconoscimenti nei festival, le lezioni di cinema e l’amore incondizionato dei cinefili. In qualche modo, però, si sperava di vederlo ancora una volta, magari l’ultima, dietro la macchina da presa. Come quando, nel lontano 1995, Michael Cimino, morto ieri sera a 77 anni, tornò al cinema con Verso il sole e realizzò un film così fuori dal tempo, così unico, così indubbiamente americano e intimamente hollywoodiano – per lui che dopo il 1980 e I cancelli del cielo era diventato il recluso e il reietto – da sembrare un omaggio al sistema che lo aveva rifiutato, un segnale di pace non richiesto, non accettato, e dunque ancora più bello e commovente.
Per chi è cresciuto cinematograficamente negli anni ’80, la grandezza di Cimino non è mai stata in dubbio. Lui come Scorsese, Coppola, Lucas, Spielberg, Altman, Friedkin... Eppure, a leggere le reazioni della critica all’indomani della presentazione di I cancelli del cielo, che Cimino realizzò sull’onda del successo di Il cacciatore, che costò 44 milioni di dollari a dispetto dei 12 preventivati e ne incassò solamente 4, che fu tagliato e rimontato dopo le prime disastrose proiezioni pubbliche, che accelerò il fallimento della United Artists e spinse dopo di allora i produttori a premunirsi contro il potere e la magniloquenza dei registi-autori, a leggere insomma cose come quelle che scrisse Vincent Conby del «The New York Times» - "the film fails so completely that you might suspect Mr. Cimino sold his soul to the devil to obtain the success of The Deer Hunter, and the devil has just come around to collect an unqualified disaster” - viene da dubitare, non tanto della critica americana di allora, quanto del proprio sguardo, della propria storia personale e dell’idea di cinema con cui si è cresciuti.
Alla base di quel fallimento epocale c’era solamente il fatto che Cimino mostrasse come la conquista del west non fosse avvenuta solamente con lo sterminio degli indiani, ma anche attraverso una vera e propria lotta di classe, proprietari terrieri contro immigrati dell’est Europa, come se i paesaggi vergini della frontiera fossero stati teatro di conflitti già europei e vecchi di secoli, incancreniti da una questione sociale mai risolta che la giovane terra americana pretendeva di non aver mai ospitato, oppure non c’era anche (e c’è tuttora, a quarant'anni di distanza) la totale revisione della storia di un paese e del suo stesso cinema, della capacità di un’arte di confermare il proprio immaginario e al tempo stesso stravolgerlo, mutandolo in maniera indelebile e mostrando il vuoto su cui poggia?
Ripensare oggi a Cimino, accettando il fatto che il suo cinema fosse storia già da decenni e che in realtà fosse impossibile aspettarsi ancora qualcosa, significa ripescare in un patrimonio di ricordi privati, quasi intimi. La prima visione a dodici anni di Il cacciatore, per esempio, e tuo padre che ti spiega la goccia di vino sul vestito da sposa di Angela, o la roulette russa o ancora il colore livido delle mattine della Pennsylvania mentre Mike e compagni vanno al lavoro o a caccia... Uno scrigno di ricordi.
E poi le macchine rombanti, la polvere che si alza, gli spazi aperti e iperrealisti di Una calibro 20 per lo specialista, e più di vent’anni dopo la stessa iconografia ripresa in Verso il sole, con il viaggio del medico bianco e dell’indiano malato a bordo di macchine sempre più iconiche nel panorama americano, dall’utilitaria alla Cadillac anni ’50, fino al sogno fittizio di una montagna incantata.
E prima ancora la New York metropolitana, anni ’80 e noir, di L’anno del dragone, con le strade riprese dal basso, le vetrate su Manhattan e i mattoni in arenaria a vista. O magari le bandiere rosse della strage di Portella della Ginestra in Il siciliano, riprese da un’angolazione impossibile, frontale e profondissima, dinamica come un quadro futurista, espressione del senso di Cimino per la tridimensionalità dello spazio e l’ampiezza dell’inquadratura.
E infine, e forse soprattutto, l’inserto western di Ore disperate, che non c’entra nulla col resto ma proprio per questo racchiude la forza del cinema di Michael Cimino, l’apertura improvvisa su un campo di possibilità illimitate, lo sguardo sulla mitologia di una nazione e il coraggio di ribadirla a ogni occasione, anche la più inattesa, prendendo in contropiede le aspettative dello spettatore e riportando il suo sguardo nei luoghi da cui inconsapevolmente proviene.
Ripensare oggi a Cimino, senza nulla togliere a un capolavoro come Il cacciatore, significa ripensare soprattutto a I cancelli del cielo: un western che comincia con una lunga sequenza ambientata ad Harvard, che racconta l’origine europea ed elitaria della cultura wasp, che piomba con la violenza di uno shock culturale nella wilderness del Wyoming, filmandone la maestosità con una potenza figurativa che supera ogni tradizione paesaggistica o trascendentalista americana, oltre Cole, Church, Birch o Bierstadt o i ben più influenti filosofi Emerson o Thoreau; un film che tratta i luoghi chiusi come gli scenari aperti e trasforma una sala da ballo o la cima di una collina in spazi vertiginosi e multidimensionali, come città che salgono, con i vuoti che esaltano le figure e i pieni che tracciano infinite linee e infinite direzioni... I cancelli del cielo illustra senza misure la contraddizione tragica alla base della cultura americana, il legame sempre nascosto - almeno nel cinema hollywoodiano - fra retaggio secolare e idealismo da terra vergine, mondo europeo corrotto e falso sogno d’innocenza.
Con quel finale ovattato e imprevedibile, con l’aria languida e morbosa che si respira nell'ultima sequenza, dopo la fine del western e dell'innocenza, e dopo la vittoria accettata dello sterminio, Cimino mette in scena il controcanto della storia americana e del racconto che il cinema ne ha fatto. Con l’eccezione sul versante metropolitano dello Scorsese di L’età dell'innocenza, è forse il solo ad aver superato in termini storici l’eredità della Hollywood classica, cancellando l’iconografia del western e raccontando ciò che John Ford solamente evocava in L’uomo che uccise Liberty Valance.
La grandezza forse irraggiungibile di Cimino, in definitiva, sta nell’aver mostrato in termini ambigui e affascinati il volto nascosto di una nazione e il lato inesplorato della forma di racconto che più di ogni altra l’ha definita. Il suo cinema rimarrà per sempre come sguardo unico, mai più ripetuto e forse irripetibile, su un vuoto di rappresentazione e sul peso della sua mancanza.