L'ultima edizione del Bergamo Film Meeting, svoltasi a sole due settimane dalla scomparsa di Luca Ronconi, nella sua bella sezione "Dopo la prova. Schermi e palcoscenico" ci ha indotti a riflettere ancora una volta sul rapporto tra regìa scenica e filmica. Ci avevamo già provato nel remotissimo '81 Giuliana Callegari ed io, con la corposa antologia testuale per l'allora Provincia di Pavia, Voce dietro lo schermo.Alcuni possibili itinerari tra cinema e teatro (era appena uscito da Adelphi Voce dietro la scena di Praz).
Diversi autori hanno saputo, nel tempo, imporre la propria qualità tendenzialmente assoluta ora alla ribalta ora sullo schermo: Welles e Visconti, Bergman e Kazan, Penn e Brook, a suo modo lo stesso Carmelo Bene. Uno lo sta facendo superbamente, per fortuna, proprio nei nostri anni: è naturalmente Mario Martone, e sul rapporto fra le due entità rappresentative nel suo lavoro bisognerebbe davvero soffermarsi.
Altri ci hanno lasciati col rimpianto di un debutto tanto annunciato-agognato quanto rimasto purtroppo lettera morta in tutti i sensi: Strehler e i suoi Mémoires goldoniani per la tv, la cui sceneggiatura Marsilio ha offerto due anni fa. Il testo contiene i cinque episodi della biografia, stesi dall'autore entro il '71, su commissione Rai di qualche anno prima: considerati perduti dallo stesso Strehler al termine di quel decennio e ritrovati postumamente, nel riordino del suo archivio privato da parte del Museo Teatrale "Carlo Schmidl" di Palazzo Gopcevich a Trieste. Per parecchio tempo, negli anni Sessanta-Settanta, se ne favoleggiò: ci sono state belle riflessioni in merito in una recente intervista di Francione a Giulia Lazzarini, uscita, sulla scia di Mia madre, su «Alias» del «manifesto» il 18 aprile.
Altri ancora hanno lasciato vedere in un solo film quanto di estremamente incisivo avrebbero potuto offrire al cinema. I due casi più vistosi, quelli di Ettore Giannini con Carosello napoletano, '53, e dieci anni dopo, su tutt'altro versante, di Gianfranco De Bosio con Il terrorista: omettendo il successivo incidente della Betìa, '71, che non toglie una virgola alle sue storiche messinscena ruzantiane, fondamentali e fondanti, anche criticamente, almeno quanto il precedente lavoro filologico preparatorio di Lovarini, Zorzi e Baratto.
Altri, infine, non sono riusciti a condensare sullo schermo, pur reiteratamente frequentato, il meglio di sé: il sommo Eduardo, sia come regista che come attore di film, ha sempre finito per apparire un po' inusitatamente un pur titanico “minore”, rispetto alla sua grandezza drammaturgica e scenica; un onesto e versatile uomo di spettacolo come Maurizio Scaparro non è potuto andare oltre le puntuali trascrizioni schermiche di sue peraltro dignitosissime realizzazioni sceniche (il bel Don Chisciotte), poi corroborate ulteriormente, almeno nelle intenzioni, dalla multimedialità del progetto «Teatro e Cinema» (Amerika da Kafka, quell'Ultimo Pulcinella che era rimasto un sogno inevaso di Rossellini).
Sul finire degli anni Cinquanta, del resto, lo stesso Antonioni, tra Il grido e L'avventura, rinunciò addirittura e definitivamente a ulteriori regìe teatrali, sciogliendo dopo pochi allestimenti la compagnia che aveva formato (pur annoverante Sbragia, Dal Fabbro, la Nogara e Virna Lisi, oltre naturalmente alla Vitti: nella distribuzione di Io sono una macchina fotografica di Van Druten, '57, figurava lo stesso ventiquattrenne Ronconi...) a causa delle limitazioni insite nella dimensione scenica: «un solo taglio di inquadratura, un "totale", senza alcuna possibilità di sfruttare appieno le espressioni di un attore». Una direzione di marcia, come si vede, esattamente opposta a quella della maggioranza di suoi colleghi operanti prevalentemente in palcoscenico.
Il “caso Ronconi” è in apparenza sfuggente e comunque decisamente più complesso. Nel '73 Quadri - critico a lui notoriamente “assai vicino”, anche sul piano della reciproca stima personale - annunciava, all'ultima riga del primo libro su di lui, un imminente debutto nella regìa filmica, dopo la disillusione seguita al fallimento dell'Orestea. «Non hai mai pensato di "saltare" nel cinema?» gli avrebbe chiesto in pubblico a Sarzana Gianfranco Capitta, quarant'anni e più di cento messeinscene teatrali (senza contare le oltre ottanta regìe liriche!) più tardi: «Mi è stato proposto diverse volte, ma mi sono sempre rifiutato, mi sono tirato indietro spiegando che non è il mio lavoro» sarebbe stata la risposta: «Però una certa nostalgia del cinema devo averla dentro, perché parecchie volte ho utilizzato il palcoscenico facendo sì che momento per momento (e qui c'entra il problema del tempo) per tutta la durata della rappresentazione sia presente sul palco, all'occhio dello spettatore, solamente ciò che in quel momento è necessario. Questo potrebbe essere un procedimento cinematografico: non mettere nel quadro visivo della rappresentazione teatrale qualcosa che al momento non c'entra. Se ce la metti, è perché anticipa qualcosa che arriverà: niente che non sia controllato e voluto».
Anche prima e dopo, nei quattro decenni intercorrenti, si sarebbe tuttavia venuta snodando una vicenda, per così dire, di costante e reiterata tangenzialità, d'altra parte qui efficacemente riassunta. Il "problema del tempo" ne appare chiaramente il nucleo. Un caso particolarmente probante è quello dell'allestimento dell'Anitra selvatica di Ibsen (Prato-Genova 1977), in cui veniva sviluppata una «riflessione sul rapporto con il tempo tra un medium della continuità (il teatro) e un medium dell'istantaneità (la fotografia, oltre che naturalmente tra il flusso della vita e la fissità della morte)» (Ponte di Pino). Ma chi abbia visto il controverso quanto affascinante spettacolo, ricorderà come vi si insinuasse nel concreto, di fatto, il cinema, in quanto "movimentatore" storico -oggettivo- della fotografia. Intuizione forse propiziata anche dal fatto che il protagonista ibseniano sia, “modernamente”, un fotografo: ma una sia pur più statica suggestione non dissimile si sarebbe riaffacciata, ad esempio, dodici anni dopo con il pur forse non felicissimo Tre sorelle.
Tale dimensione negli allestimenti ronconiani era stata colta con lucidità a suo tempo anche da un intervento parlato notturno da Taormina nel '98 di Ghezzi, a proposito del Ruy Blas torinese di due anni prima, attraverso uno dei consueti paradossi: «E questa del tempo: non tanto della dimensione tempo nel teatro di Ronconi, quanto dell'istituire, a partire dal Tempo, un frame in qualche modo immutabile, quella che dicevo "un'improvvisa allucinazione". Dei grandi frames: anche il frame spaziale è tale, e in Ronconi poi lo spazio letteralmente scompare. Come scompare il tempo: un'ora, o sette ore, o nove, sono in qualche modo la stessa cosa, anche se c'è una percezione, una visita del proprio tempo di attesa. Ma sono appunto dentro un'unica macchina, che disegna solo il freno. Trovo che anche gli attori, tante volte visti come torturati dentro questa macchina, o come costretti, siano ri-posti da Ronconi a una sorta di originarietà. Sono costretti ad agire, sono costretti a essere o non essere, sono tutti degli Amleti. Proprio perché è talmente intensa e formata la scena, talmente definitiva e spinta, che da quel momento sono costretti a decidere, a scegliere. Anche perché sono proprio dentro delle forme che paiono terribilmente precise. Ronconi da una parte mi sembrerebbe un grande costruttore, un costruttivista iperformalista alla Lang o alla Kubrick, per parlare di cinema. E nello stesso tempo, non solo nel caso del ragno degli Spettri, proprio perché questo avviene col/nel teatro, quindi mettendo il film a repentaglio continuamente, come se ci fosse un'obbligatoria apertura rosselliniana. Io trovo abbastanza assurdo il teatro, perché se lo amassi davvero vorrei vedere tutti i film del teatro, quindi dovrei essere tutte le sere a ogni rappresentazione. Una volta che cominciassi, se fossi stato preso dal virus del teatro... in qualche modo mi capita così coi concerti: tutto, ogni variazione, vedere il giorno dopo l'attore com'è. Magari quel giorno ha fatto l'amore con un'altra persona, e cambia. Vedere come cambia dentro una forma di spettacolo, come si riforma continuamente la stessa forma. E trovo che sia molto doloroso -immagino- per un regista, ad esempio, ri-autore come Ronconi, essere in qualche modo costretto a una forma. Lo vedo, rovesciato, come spettatore: e trovo che in Ronconi ci sia proprio questo comico dolore del teatro. Ronconi è sempre stato in gioco con l'Irrappresentabilità, nel senso che ha lavorato su tantissimi testi irrappresentabili, in primis l'Orlando furioso. Ma, nello stesso tempo, in mano sua quasi tutti i testi diventano irrappresentabili. L'anitra selvatica ha dentro non la propria chiave di rappresentazione ma, fortunatamente, proprio la sua irrappresentabilità. La presenza di questa macchina ottica che ci dice che, ad esempio, da quando esiste il cinema non possiamo più vederlo, il teatro, perché lo perdiamo ogni momento, ogni momento c'è un fotogramma che si fissa e lo fissa altrove. Quindi il teatro è sempre un altrove, un inseguimento dell'immagine che era già perduta quando si cominciava a lavorare sul testo. Questo significa vedere tutti i testi, anche quelli più classici, diventare irrappresentabili: poi egualmente messi in scena. E' Ronconi, e la sua torsione, la sua dialettica più intensa: quella che mi affascina di più».
Nel teatro di Ronconi, a ben riguardare, di "cinema" ce n'è stato, nascosto, tanto. Se n'era già accorto Franco Mancini, nel suo L'illusione alternativa. Lo spazio scenico dal dopoguerra ad oggi (Einaudi 1980), riferendosi addirittura al giovanilissimo, primo Misura per misura ai giardini torinesi di Palazzo Reale dell'estate '67, cogliendovi «una pluralità di piani di derivazione elisabettiana. Già dai primi tentativi, Ronconi intende offrire con i suoi spettacoli uno strumento di indagine che consenta allo spettatore di spingersi oltre la realtà circoscritta della rappresentazione: uno strumento, come egli dice, capace di "ordinare la realtà secondo una molteplicità di punti di vista, secondlo una polivalenza di attitudini mentali e critiche" (Doplicher, "Sipario", dicembre 1975)». Il caso più vistoso -anzi, clamoroso- quello della Dannazione di Faust di Berlioz al Regio di Torino nel '92, come scrisse all'epoca lo stesso regista: «L'idea è stata quella di raccontare l'opera adottando il punto di vista del protagonista: e quindi ecco la sua carrozza, i carri e i contadini visti dall'alto» con un inaudito effetto scenografico di ripresa aerea, ragguagliabili all'apporto di un obiettivo in posizione sopraelevata. Ma non è certamente l'unico.
«Nel suo lavoro», è stato del resto giustamente osservato anche dalla Cavaglieri, «tornano a più riprese la suggestione del cinema e l'impiego di espedienti linguistici di estrazione marcatamente cinematografica. La si nota a volta nei procedimenti drammaturgici, che rivelano affinità con la tecnica del montaggio, mentre altre volte il richiamo è soprattutto a livello visivo, grazie all'alternarsi di primi piani e campi lunghi, allo spostarsi della prospettiva, al gioco di campo e controcampo, spesso ottenuti attraverso l'avvicinamento o l'allontanamento delle scene ai personaggi (è il caso di Commedia della seduzione). Talvolta l'immagine cinematografica entra addirittura a far parte dello spettacolo (Il Barbiere di Siviglia, Viaggio a Reims e Guglielmo Tell, dove essa diventa un indispensabile elemento drammaturgico). L'esito più acclamato in questa direzione è il recentissimo Lolita, ma esso è anticipato da un importante precedente: I dialoghi delle Carmelitane di Bernanos, allestito nel 1988. [...]. Non a caso più di un critico riconosce lo spettacolo come una prova di cineteatro"».
La sistematica invocazione di proiezioni adeguate nei Dialoghi delle Carmelitane e l'idea stessa di riprendere sistematicamente, in Lolita – sceneggiatura, il copione abbandonato da Kubrick, sono sicuramente i vertici di questa tendenza, giungendo a produrre nel secondo caso un «vero teatro in cinemascope», come ha ammesso egli stesso con Capitta. La cosa del resto era venuta accentuandosi proprio nell'ultimo periodo dell'attività ronconiana: la semplificazione -si fa per dire- delle meccaniche scenografiche negli spettacoli classici da Siracusa, nel Fahrenheit post-truffautiano, negli ultimi Shakespeare, negli Spregelburd, nel da Rojas e nella Lehman Trilogy finali, ha accentuato la capacità e la convinzione di spezzare i piani visivi, superando la staticità insita nella prevalenza del fatto teatrale.
E resta un grosso rincrescimento che solo a poche trascrizioni tv Ronconi si sia prestato personalmente: la versione della Bettina '76 fa davvero rimpiangere l'occasionalità dell'esperienza, ripetuta soltanto sei anni dopo nell'altrettanto straordinario Joan Gabriel Borkman (meriterebbero un'analisi a parte l'Orlando trasferito dalle piazze a Cinecità e a Caprarola del '75, e l'antologia filmata de Gli ultimi giorni dell'umanità al Lingotto del '90: peccato non sia successa la stessa cosa per l'altro "propileo" di Luca, l'Ignorabimus di Prato '86).
Quadri l'aveva notato fin dal suo Il teatro degli anni Settanta. Tradizione e ricerca einaudiano: «Da quando ha smesso di far l'attore per dedicarsi stabilmente alla regìa, cioé dal '66, Luca Ronconi ha sempre coltivato nei suoi spettacoli, a volte rivoluzionari, spesso di difficile costruzione, una duplice linea di ricerca: sullo spazio e sulla recitazione. [...]. Ovviamente ricorrendo nella messinscena ad altri mezzi [...] perché nel frattempo è cambiata anche la funzione del teatro, a causa tra l'altro della concorrenza del cinema e della televisione».
Sebbene alcune tendenze abbiano potuto addirittura, rispetto a determinate intenzioni, rischiare di rivelarsi controproducenti. Timore colto dall'estremo Ronconi, ben consapevole di come le cose, in generale, fossero andate ben diversamente da quanto si pronosticava negli anni Sessanta, ancora nella confessione in pubblico con Capitta: «Ma forse tutte queste cose che io ho perseguito appartengono a un tempo già passato. [...]. Perché molto teatro recente, anche interessante, mi sembra presupporre una maggiore attenzione all'immagine di tipo televisivo, ossia a una certa "passività", di una parte del pubblico, almeno. Per chi, come me, ha pensato alla mobilità del pubblico e alla frantumazione dell'azione come a un fatto liberatorio, può risultare abbastanza umiliante che quei procedimenti oggi possano essere associati al meccanismo dello zapping». Sic transit gloria?