Quando Kubrick mostra Alex nella sua camera – uno spazio ordinato, asettico e pop, che si apre paradossalmente in un cadente palazzone di periferia – ci conduce dentro il cervello del suo ragazzo selvaggio. Dal cassetto contenente la refurtiva di soldi e orologi, si passa alla visione di oggetti kitsch – le quattro statuine di Cristo, staccate dalla croce, che ballano – di animali – un bel pitone domestico – fino ai feticci idolatrati – il poster di Beethoven e la sua Nona. Questa galleria è il preludio alle sue visioni oniriche dove, a differenza del romanzo di Burgess, non ritroviamo nulla della realtà cruda dei corpi che aggredisce e stupra nelle strade, ma appare un immaginario hollywoodiano di paccottiglia, riveduto e corretto in chiave pulp, un passato di cartapesta rivisitato da un io che sogna se stesso mentre sorride maligno con i canini del Christopher Lee-Dracula dei primi anni ‘70. I sogni di Alex riflettono soltanto immagini di sottoprodotti come lo sarà la sua “reinvenzione” dei testi sacri dove uccide o copula in un harem o percuote Cristo sulla via del Calvario. È un immaginario che non nasce dalla realtà (nonostante Alex ci si immerga ogni notte) ma dal cinema convenzionale, rivisitato dalla sua fantasia malvagia e eccitata. L’ultima inquadratura - Alex nudo con una ragazza in mezzo a due ali di pubblico in costumi dell‘800 – a conferma della sua “guarigione” - aggiunge al sadismo e alla sessualità maniacale anche il narcisismo compulsivo: il piacere di essere guardato da una folla durante un coito. L'aberrante e feroce narcisismo social non è molto lontano.