Un paio di occhiali a forma di cuore, un leccalecca, una canzoncina insensata. Puzzle composto da uno scrittore compiaciuto e autoindulgente e da un commediografo cinico e piacione, è con il corpo e lo sguardo di Sue Lyon che, nel 1962, esplode Lolita di Kubrick. Trucchi, ipocrisie e maschere, il rito ammiccante del party al circolo e quello solenne dello smalto alle unghie dei piedi. Un mélo travestito da commedia e una commedia travestita da noir. Girato in bianco e nero nella vecchia Inghilterra che si finge il New England, aperto da un omicidio, è un gioco a rimpiattino tra i protagonisti, e tra il regista e le aspettative del pubblico (e di Nabokov, che scrisse anche la sceneggiatura, ma un'altra sceneggiatura, e forse non fu soddisfatto, ma comunque felice di incassare le royalties). Dove gli scacchi amati da Kubrick sono sostituiti dal "Roman ping pong" giocato da Quilty, e la pallina rimbalza dove non te l'aspetti. E così il mélo delle frustrazioni suburbane incarnato dalla tubante Shelley Winters devia verso la commedia dei travestimenti che, sfogliandosi, rivela che la torbida Lolita nient'altro è che Dolores, versione adolescente della sua maldestra mamma, e che Quilty è, ça va sans dire, la faccia navigata di Humbert Humbert. Dopo essersi spiati per miglia e miglia e party e motel, due attori perfetti, il carnale James Mason e il cerebrale Peter Sellers, si fronteggiano in una piccola Xanadu riempita da Kubrick di effetti personali. Lo scrittore mette knockout il commediografo, che muore dietro un ritratto settecentesco. Ma, ai punti, ha vinto lui: Clare Quilty si è mangiato il film, trasportandolo, con il consenso di Kubrick, nel regno del nonsense e della satira nera.