Il primo lungometraggio di Kubrick e il suo più grande dolore. Il film che il regista newyorkese ha rinnegato fino alla morte, quello che cercò di far sparire dalla circolazione per anni e del quale tentò di impedire tutte le proiezioni pubbliche finché ebbe vita. Paura e desiderio è un’opera che fino agli anni Novanta del secolo scorso in pochi avevano visto e quasi nessuno ricordava. L’oblio e la damnatio memoriae a cui Kubrick lo condannò ne fecero però un cult assoluto ancor prima della sua ricomparsa sugli schermi.
Paura e desiderio, oggi – benché sia qualcosa di difficilmente analizzabile come film in sé per sé (vista l’aura mitica alla quale è assurta la figura del suo autore) – appare come qualcosa di completamente fuori dagli schemi per il cinema americano dell’epoca. Certamente incompleto, confuso, penalizzato da una sceneggiatura verbosa e che risente della povertà di mezzi in cui venne a trovarsi. Eppure capace di rivelare già molte potenzialità del ventiquattrenne Kubrick. Come l’ottimo lavoro con gli attori, l’uso espressivo degli spazi e soprattutto la capacità di creare un ritmo serrato e un senso di angoscia costante, che non svanisce e, anzi, si intensifica man mano che la narrazione prosegue.
Forse furono le concessioni estetiche al cinema delle avanguardie (i numerosi primissimi piani espressionisti, soprattutto nelle scene con la ragazza) e un montaggio à la Ėjzenštejn (curato da Kubrick stesso) davvero disastroso, a far vergognare Stanley delle proprie sperimentazioni di gioventù. Ma la verità è che le incompiutezze giovanili dei maestri fanno sempre sorridere. E consolano anche un poco. Certamente molto di più che se avessimo scoperto che da giovane, Kubrick, era già un “mostro” capace di cose come Shining, 2001 e Full Metal Jacket.