Come prima di lei il suo ex collaboratore Yorgos Lanthimos (di cui in passato ha prodotto Kinetta e Kynodontas, prima che il regista greco approdasse con The Lobster al cinema europeo prodotto in Gran Bretagna e Irlanda) e in tempi più recenti Ariane Labed (l’attrice di Attenberg che in maggio ha portato a Cannes il suo primo film da regista, September Says, girato in Irlanda), anche la produttrice e regista greca Athina Rachel Tsangari, dopo i lunghi Attenberg, per l’appunto, e Chevalier, entrambi girati in Grecia, ha scelto la coproduzione europea e location e lingua britanniche per questo suo nuovo Harvest, tratto da un romanzo di Jim Crace.
Un dato non secondario, dal momento che il film, al di là del cast internazionale che vede giovani attori di talento come Caleb Landry Jones e Harry Melling, ha lo stile tecnicamente ineccepibile ma visivamente anonimo di un cinema che si dà una patina d’artisticità nel momento in cui rinuncia alla personalità. Ambientato in un Medioevo di fantasia, Harvest è girato con perenne camera a mano mobilissima, infinità di primi piani strettissimi, riprese di personaggi di spalle, fotografia (del d.o.p. e regista Sean Prince Williams) opaca accentuata dalla grana della pellicola in 16mm e montaggio nervoso e frammentario. Uno stile che oggi può acquisire chiunque, con o senza pellicola, facile e impersonale nella sua evidenza, nel quale si fatica a riconoscere la mano di un autore o autrice.
In compenso, la regista dei cerebrali, paradossali, comici e crudeli Attenberg e Chevalier, nonostante l’ambientazione storica del film in costume, è interessata ai suoi temi prediletti: l’osservazione di un mondo chiuso, le dinamiche di potere tra i personaggi, la dimensione, se non del gioco, almeno dell’esperimento sociale che testa la tenuta delle strutture socio-economiche.
Il cuore del film è un villaggio isolato nelle campagne di una nazione indefinita, in un passato indefinito a cui i costumi sporchi e trasandati danno una patina di Medioevo poi smentita dagli interni seicenteschi del palazzo padronale, una comunità autosufficiente in cui si coltiva la terra e, soprattutto, servi e padrone vivono in armonia, rispettando ruoli e doveri e rinunciando al suo interno a usare la giustizia come strumento per regolare i conflitti. Una sorta di stato di natura, come indica didascalicamente l’inizio con il protagonista, il contadino Walter Thirsk (Jones), che mangia la corteccia degli alberi e accarezza l’erba, subito spezzato in realtà da un incendio che manda a fuoco la stalla del padrone, il bonario ma inetto Charles Kent (Melling), migliore amico d’infanzia di Walter e suo protettore, senza che questi faccia nulla per punire i colpevoli.
La scintilla del fuoco avvia il cammino che porterà alla cancellazione del villaggio, ma il colpo di grazia non lo dà la natura, bensì l’uomo. L’uomo con la sua intelligenza, il suo occhio, la sua mente che razionalizza i processi di coltivazione, produzione e costruzione. L’arrivo di un gruppo di vagabondi, che occupa un pezzo di terra comune e per questo, in quanto stranieri, vengono puniti, e soprattutto di un cartografo, che deve mappare la zona per conto di un nuovo padrone, il cugino di Kent che rivendica per sé le terre, segnano l’inizio della fine: non è una questione di violenza, che pure arriva nel momento in cui gli scagnozzi del padrone puniscono chi disobbedisce, ma di linguaggio.
Il disegno di una mappa, che reinterpreta la natura appiattendola con la vista dall’alto, e le parole che danno un nome a cose che fino a quel momento nessuno aveva bisogno di chiamare, portano la realtà su un piano d’astrazione e interpretazione che allontana l’uomo dalla terra, dalla linfa vitale della vita, dalla comunanza tra uomo e animale (ad esempio, tra la lana delle pecore e i capelli di donna), dall’idillio sporco ma autentico del villaggio isolato e sereno.
Per Tsangari, in questa allegoria politica e astorica, la civiltà passa per la parola, e da lì, un po’ prevedibilmente, per la trasformazione di un’economia di sussistenza in una capitalistica, con gli uomini e le donne del villaggio che cominciano a coltivare, raccogliere e produrre con l’obiettivo di vendere al di fuori dei propri confini. E finiscono poi abbandonare tutto quando il nuovo padrone dichiara di voler trasformare le terre incolte in distese di pascoli. Mettendosi contro la tradizione cristiana, che dal verbo fa scaturire la vita, nella nominazione del mondo Tsangari vi scorge il segno della morte, mentre nella visione dall’alto del cartografo (e di rimando del cinema, come suggerisce una scena girata con un drone al tempo stesso orripilante e significativa), il segno di un appiattimento che porta a perdere la giusta prospettiva delle cose.
Walter Thirsk, narratore del film e testimone impotente a cui nulla sfugge, possiede dunque il dono più prezioso: quello dello sguardo complessivo, come fa capire al cartografo quando dimostra come i disegni su pergamente della sua terra non colgono la complessità della conformazione terrestre. Walter ha una visione unica, totale, immediata. E ogni forma di mediazione fra l’occhio e la realtà, come suggerisce chissà quanto consapevolmente questo film dallo stile anonimo e impersonale, è una forma di distacco, un allontanamento letale.
Ed è come se Tsangari, non solo riprendesse e sconfessasse i suoi lavori precedenti (che erano basati sull’osservazione a distanza di dinamiche di potere, sesso, identità, e sulla creazione di linguaggi nuovi), ma andasse contro - chissà quanto consapevolmente - la stessa storia del cinema, che è partita proprio dalla separazione fra sguardo e mondo per provare a costruire una lingua (un linguaggio?), senza per questo abbandonarsi all’idea di un fallimento primigenio da cui è impossibile emendarsi.