Concorso

Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma

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Ovviamente gli autori non sono vincolati alla narrazione del presente, né tantomeno del tempo che hanno conosciuto personalmente. Nessuno oserebbe contestare a un regista di non aver vissuto direttamente il tempo nel quale il suo film è ambientato. Eppure vedendo Leurs enfants après eux dei fratelli Boukema una sorta di stridore sembra emergere. 

Il film è tatto dall’omonimo romanzo di Nicholas Mathieu, che è un autore francese indiscutibilmente talentoso. I suoi libri sono capaci come pochi altri di ricostruire atmosfere e situazioni dalle quali si emerge con una specie di viscosità addosso che ci mette qualche giorno a scivolare via. Leurs enfants après eux (prix Goncourt 2018) parte dall’estate di un ragazzo che nel 1992 è quattordicenne e lo segue nei sei anni successivi, nel tempo fertile dell’adolescenza durante il quale la vita prende delle pieghe che segnano indissolubilmente il resto dell’esistenza. Siamo nella Francia orientale, in una valle dove le ciminiere della fabbrica non bruciano più, e ci si sente relegati ai margini di tutto quello che di importante sta succedendo nel resto del mondo. Tra la nostalgia e il declino, la noia e il risentimento operaio, il libro segna lo scandire del tempo con riferimenti musicali imprescindibili per chiunque sia stato teen in quegli anni, da Smells Like Teen Spirit in poi.

E forse la sensazione di stridore che lascia il film risiede tutta qui, nel fatto che avvenga un’appropriazione di un immaginario da parte di chi come i giovani registi, contrariamente all’autore del libro, quelle estati non le ha vissute e nel 1992 era appena nato. Perché Leurs enfants après eux è stato prima di tutto un libro sulle atmosfere di un passato recente che ancora smuove le pance dei quarantenni di oggi, il cui immaginario si sta ancora costruendo in un’elaborazione che prende inevitabilmente i tempi lunghi del distacco necessario. Il talento di Nicholas Mathieu è stato (tra gli altri) anche quello di riuscire a compiere questa operazione in un tempo relativamente breve: gli è bastata una ventina d'anni per ambientare un coming of age alla fine del ventesimo secolo con competenze autobiografiche, congelando quel tempo in un immaginario collettivo, richiamando nel lettore una memoria sensoriale e affettiva, frugando nelle sue reminiscenze. Allora forse l’unica critica che ha senso fare è che è passato davvero troppo poco tempo perché gli anni Novanta diventino già oggetto di tributo da parte dei giovanissimi. Lasciateci ancora qualche anno per invecchiare, saremo allora forse più pronti a cedervi quello che sentiamo ancora come solo nostro.