Usa, inizio anni Ottanta. Coeur d’Alene è una sonnolenta cittadina dell’Idaho dove, a sentire lo sceriffo, l’atto criminale più probabile sarebbe la pesca di frodo delle trote. È lì che va a svernare Terry Husk, un agente dell’FBI reduce da un caso finito male nell’ambiente mafioso di New York. In realtà da quelle parti iniziano ad accadere rapine sempre più frequenti: un sex shop, una banca, un assalto a un portavalori. Colpi sempre più eclatanti, apparentemente slegati tra loro ma che invece nascondono una trama comune. Husk intravede un filo, ad aiutarlo all’inizio c’è solo un agente del luogo refrattario a nascondere la polvere sotto il tappeto. Banconote false, una setta di suprematisti bianchi – l’Aryan Nations – con il quartier generale a poche miglia, l’escalation violenta che sembra ricalcare i quattro “movimenti” di un romanzo scritto una manciata di anni prima, The Turner Diaries, bibbia dell’ultradestra neonazista americana: le tracce sparse cominciano a formare un disegno. L’agente Husk capisce di trovarsi di fronte non a una serie sparsa di crimini violenti ma a un piano insurrezionale fatto di veri e propri atti terroristici destinati a un gioco al rialzo che include l’omicidio del conduttore radiofonico Alan Berg. Presto le indagini portano all’individuazione di un gruppo di recente fondazione, The Order, guidato dal glaciale e carismatico Robert Mathews. La base del gruppo, agghindata con slogan e bandiere naziste, si trova a Metaline, nel vicino stato di Washington.
In The Order, Justin Kurzel ricostruisce le vere indagini che portarono alla cattura dei vari membri del gruppo e alla morte di Mathews, assediato e poco incline a consegnarsi vivo nelle mani dei federali, seguendo le regole canoniche del genere. Da una parte Husk (Jude Law, bravissimo), testardo nel lavoro e dolente nell’anima, sguardo teso e espressione stropicciata, affiancato da una superiore disposta ad assecondarlo e da un giovane agente voglioso di giustizia; dall’altra l’algido e feroce Mathews (Nicholas Hoult), modi spicci e decisi, amorevole con le sue donne – una moglie devota e un’amante adorante complice – e solidale con i suoi compagni (almeno fin quando non parlano troppo in giro) quanto spietato nel suo desiderio ideologico di morte. Kurzel rinuncia – per sua e nostra fortuna – a eccessive velleità autoriali, che spesso hanno appesantito i suoi film, per costruire un racconto vecchio stile, un thriller dagli evidenti contenuti politici che ricostruisce il passato per parlare, e analizzare, i rischi del presente. Perché The Order gioca le sue carte su questa ambiguità: un vago sapore manniano (che però non scade o si squaglia nella moralità ostentata del suo modello) scegliendo in fondo una linea più semplice. The Order va dritto dall’inizio alla fine. Si compiace quasi della propria ovvietà. Si svolge in maniera banale tracciando con chiarezza i propri confini. Si affida ai suoi interpreti – puntuali e ben definiti – per rispecchiare un canone; non osa, lasciandosi andare alla rasserenante riproposizione di uno schema. In questa “confort zone” però sa funzionare, rivela le sue intenzioni con ovvia chiarezza. Perché lo scopo di The Order è quello di riflettere sui gesti già compiuti per costruire un monito contemporaneo. In tempi di elezioni prossime e di gesti al limite della sedizione c’è da fermarsi e riflettere.
Il dialogo con Homegrown, il documentario presentato alla Settimana Internazionale della Critica, appare ovvio, quasi scontato. Cosa c’è da attendersi in questi tempi di sommovimenti e dubbi? Cosa lasciamo alle nostre spalle decidendoci all’azione? Quale coazione a ripetere potrebbe essere in grado di mettere in pericolo la nostra democrazia? Quale ipotetica minaccia alla democrazia poteva essere rappresentata dai gesti sediziosi di quei neonazisti anni Ottanta? The Order si limita – e questa non vuole essere una critica – all’esposizione dei fatti e allo sviluppo di essi in forma cinematografica. Dialoga nevroticamente con l’oggi – quali i pericoli? quali i rischi? quali le derive? quali i gesti che sembrano riflessi condizionati? – assumendo con scioltezza un approccio ideologico/progressista teso a denunciare e a smascherare le derive della destra americana radicale e implacabile (neonazista, überbianca, razzista e felice di esserlo), guardando a modelli alti – Betrayed di Costa Gavras, Mississippi Burning di Alan Parker – ma mirando a una salutare ricerca di intrattenimento. The Order vaga felicemente tra l’appeal innegabile dei propri attori, tra l’impegno mescolato allo smaccato genere, tra gioia della denuncia e gusto per l’intrattenimento. Il risultato è un film compresso, tendenzialmente riuscito, incerto tra l’affidamento al canone e la rivendicazione di una strada altra. The Order promette quel che mantiene, sospeso nell’indefinibile scelta tra fragilità autoriali e certezze strutturate. In concorso forse non ha poi così senso, ma in una più ampia riflessione sulle radici insurrezionaliste dell’America – e della nostra contemporaneità – The Order ha senz’altro qualcosa da dirci.