Frederick Wiseman è a Venezia, fuori concorso, con At Berkeley, un documentario ambientato nella celebre università californiana. Quattro ore di cinema durante le quali l'osservazione si fa pensiero e viceversa.
Perché un film su Berkeley?
Il progetto fa parte della serie che ho dedicato alle istituzioni. Volevo che quella al centro del film fosse un'università pubblica e di alto livello, e Berkeley è una delle più famose oltre che tra le migliori al mondo. Non mi aspettavo che mi avrebbero dato il permesso di girare lì e invece sono stati molto aperti. Le riprese sono durate dodici settimane e io mi sono occupato personalmente anche del sonoro.
Buona parte del film si concentra sui dialoghi e le discussioni. È stata una scelta preliminare o una conseguenza dell'osservazione?
Non prendo mai delle decisioni nette in anticipo. In questo caso la scelta di inserire lunghe scene di dialogo si è imposta da sé, perché all'università le parole sono predominanti e lo spazio per l'azione fisica – che invece era fondamentale in un film come La danse, nel quale la storia si sviluppava proprio dal movimento – qui è ridotto al minimo. Ho cercato di concentrarmi su tutto ciò che normalmente ha a che fare con le attività universitarie e la vita accademica, senza entrare negli aspetti più privati delle giornate di queste persone.
Infatti vediamo gli studenti discutere solo e sempre in presenza dei professori: questo può aver influenzato il loro comportamento di fronte alla macchina da presa?
Devo dire che a Berkeley il rapporto che si instaura tra studenti e professori è in genere positivo. Ho visitato alcune università francesi e mi sono reso conto che in quelle americane la partecipazione degli studenti è di gran lunga più incoraggiata: gli insegnanti non sono figure autoritarie e distaccate, ma portano avanti uno scambio costante con i ragazzi. Mi sembra un modello educativo da preferire.
Come ha selezionato le lezioni universitarie, di materie scientifiche e letterarie, che vediamo nel film?
Ne ho filmate moltissime e ho inserito nel montaggio finale quelle più vicine ai temi che volevo trattare, come la percezione del tempo o la differenza tra profondità e superficie.
L'ultima parte del film contiene anche le proteste degli studenti a sostegno della gratuità dell'istruzione
Berkeley è molto di più, come il resto del film mostra chiaramente, ma quelle manifestazioni ne rappresentavano una piccola parte che andava comunque inserita.
L'architettura è stata un elemento importante nell'osservazione della vita quotidiana a Berkeley?
Certo, gli edifici dicono sempre qualcosa sulla storia di un luogo e ne definiscono lo stile, l'atmosfera.
Aveva già raccontato il mondo della scuola con High School nel 1968 e High School II nel 1994: da allora il suo approccio di regista verso l'ambiente scolastico è cambiato?
Non credo di possedere un solo tipo di approccio verso la scuola o qualunque altro ambiente. E non comincio mai un film pensando "questo è il modo corretto di girarlo". L'approccio giusto per ogni film va cercato, trovato e, se necessario, modificato di volta in volta sul posto, tenendo conto della città in cui si svolgono le riprese o, nel caso dei film citati, dell'età dei protagonisti, che in High School era più giovane rispetto a quelli di At Berkeley. Il soggetto conta molto.
Quest'anno a Venezia ci sono molti documentari, ma spesso gli autori di questi film non amano definirsi "documentaristi". Cosa ne pensa?
Sono d'accordo, mi considero semplicemente un regista che gira film drammatici basati su eventi reali.