«Chi viene al mondo senza voler cambiare nulla non merita né rispetto né pazienza.»
Apre così la Quinzaine des réalisateurs di quest’anno, con uno stupefacente cortometraggio di soli 6 minuti che da tempo è circondato da un’aura di leggenda. Chi ama Philippe Garrel ne conosce bene la storia: durante il maggio 1968, lui e altri giovanissimi cineasti del gruppo Zanzibar scendono nelle strade e partecipano alle rivolte che sconvolgeranno Parigi. E lo fanno a modo loro, portando una macchina da presa sulle barricate.
Il materiale, girato in 35mm, viene poi montato con altri video in 16mm girati da altri studenti che si trovavano per le strade. Ne esce fuori un cortometraggio che Garrel da anni sosteneva essere perduto. Nasce così Actua 1: un film che viene proiettato una sola volta a Nanterre, pochi giorni dopo il maggio parigino e che poi, si dice, nessuno riuscì più a vedere.
L’aura di leggenda è anche alimentata dal fatto di essere una delle pochissime fotografie per così dire “dall’interno” del maggio francese, mentre normalmente siamo abituati alle narrazioni visive che dell’evento diede la controparte. Il corto è così leggendario che Garrel ne tentò pure un re-enactement nella prima parte di Les Amants Reguliers. Scherzi della memoria materiale: questo piccolo capolavoro rivede la luce proprio oggi, proprio nell’edizione numero 68 di Cannes.
Il film comincia con l’immagine di una finestra divisa in due da una vistosa banda nera che dà su una popolatissima manifestazione di piazza. Ma subito vediamo la banda scomparire, la folla diventare Uno, e la macchina da presa scendere in piazza tra i fumi dei lacrimogeni e della celere parigina. Non dobbiamo però farci ingannare da questo finto senso di unità, perché se c’è un regista che ci ha insegnato a pensare la divisione e la scissione, questi è proprio Philippe Garrel (e lo era lucidamente, già a vent’anni).
Una voce off maschile e una femminile si alternano (già allora, l’asimmetria del rapporto sessuale): «se pensi che le bandiere siano abbastanza, ti sbagli. Se pensi che le parole d’ordine siano abbastanza, ti sbagli. Se pensi, ti sbagli», e poi ancora «bisogna liberarsi dalla ripetizione», «bisogna distruggere la sovranità dell’Uno.»
Garrel non è il regista nostalgico e giovanilistico che l’interpretazione accomodante e generazionale del ’68 ci vorrebbe far credere. Il problema già allora era quello del conflitto e il suo cinema non farà altro che confermarlo anche nei decenni successivi – solo apparentemente meno politicizzati – spostandolo in quel detonatore di differenze che è il rapporto tra uomini o donne (o in modo più formale in quelle che Rinaldo Censi chiamava “la barricate di luce,” come le vediamo in Les Amansts Reguliers). Intanto questi 6 minuti ci riportano nell’aria irrespirabile delle strade di Parigi, tra lacrimogeni soffocanti e claustrofobici. Perché oggi, come si dice nella schermata finale del film, «persino per respirare bisogna passare il visto di censura». La libertà la si conquista e la si gode solo attraverso la lotta.
Lo stacco che segue, di “soli” 47 anni (è dunque iniziato L’Ombre des femmes, il nuovo di film di Garrel che inaugura il programma delle Quinzaine di quest’anno), ci riporta a Parigi, al giorno d’oggi, anche se pare di essere sempre nello stesso film. C’è un giovane documentarista, Pierre, che fa piccoli film politici in pellicola (quella stessa pellicola con cui è girato L’Ombre des femmes… quella stessa che ha fatto sì che Actua 1 rimanesse “dimenticato” per 47 anni in qualche scantinato). Lui è sposato con Manon, una donna che lo ama e che lo aiuta a fare le riprese e a montare i loro film: una donna che – come si dice all’inizio del film – «vive nella sua ombra». Ma vivere nell’ombra vuol dire non soltanto (o non tanto) vivere della “luce riflessa” del marito, vuol dire anche “vivere la sua ombra”, ovvero entrare in contatto con la parte più oscura del desiderio di un uomo.
Pierre infatti si innamora di Elisabeth, una stagista più giovane e bella, con la quale inizia una relazione. L’adulterio viene portato avanti senza che Pierre voglia in alcun modo sciogliere l’intreccio sentimentale nel quale si trova invischiato: non riesce a resistere al corpo di Elisabeth ma non vuole mettersi con lei perché l’idea di perdere Manon lo terrorizza. Uno psicoanalista direbbe che Pierre è un caso esemplare di ossessivo, uno che non riesce a fare una scelta perché ha paura del proprio desiderio. Uno che protrae all’infinito la resa dei conti. Sarà il suo corpo a decidere per lui: diventerà freddo, nervoso e indirettamente spingerà Manon a iniziare anche lei una relazione extra-coniugale, anche se la sua verrà vissuta con tutt’altro spirito: per amore e, per così dire, per eccesso di decisione, non per paura.
Sembrerebbe un film giocato sulle simmetrie uomo-donna, maschile-femminile: non vediamo forse due storie di adulterio che sembrano così simili l’una con l’altra? Niente sarebbe più sbagliato. Le due posizioni sono invece asimmetriche, incommensurabili, perché tra uomini e donne non c’è regola che possa introdurre una misura in questa profonda e radicale differenza. Lui lo vediamo fermo, impaurito, immobile al centro della stanza, che continua a giustificare le sue azioni con il fatto che “per gli uomini è così” e che è costretto a fare quello che fa: ovvero esclude il proprio desiderio dalla coppia. Sarà lei che dovrà portare la guerra e la forza distruttiva del proprio desiderio dentro quella storia, perché forse qualcosa del loro rapporto possa ancora una volta ricominciare.
Con L’Ombre des femmes Philippe Garrel fa uno dei suoi lavori più ispirati e intensi degli ultimi anni. La semplicità della messa in scena, la polarizzazione del bellissimo bianco e nero di Renato Berta, la povertà delle location e la brevità della pellicola (poco più di 70 minuti) non fanno altro che dare forza alla chiarezza cristallina della riflessione di fondo (e non è un caso che il gioco di luci e ombre è uno dei temi fondamentali del film).
Qualcuno, in conferenza stampa, si è detto stupito per le molte risate durante la proiezione, quasi indispettito dal fatto che per una volta Garrel sembrasse quasi aver toccato delle punte di vera e propria commedia (la voce off del figlio Louis che fa da narratore della vicenda sembra introdurre un’inconsueta distanza ironica). E la risposta del regista, geniale e fulminante, non può che darci un ulteriore elemento per capire il film: «La sceneggiatura non era per nulla divertente; se avete riso è perché conoscete quello che avviene sullo schermo “persino troppo bene”». Come insegna Freud, la risata è un meccanismo di difesa che avviene quando qualcosa che ci provoca angoscia deve essere esorcizzato.
L’Ombre des femmes non è un film inoffensivo e leggero, che magari flirta un po’ con l’immaginario bohémien dell’artista parigino esistenzialista: è un’ulteriore prova di come il cinema di Garrel non parli nient’altro che di conflitti, da 47 anni a questa parte. E speriamo davvero con tutto il cuore che non si fermi qui.