Questa sera, alle 21, Iris trasmetterà The Interpreter. Thriller del 2005 con Nicole Kidman e Sean Penn, ultimo film di finzione diretto da Sydney Pollack. Su Cineforum 450 (acquistabile qui) Franco La Polla scrisse un pezzo che ripubblichiamo, in parte, qui sotto.
Sydney Pollack continua le sue esplorazioni esistenziali di carattere sociopolitico attraverso il cinema di genere. Come Yakuza, I tre giorni del Condor, Havana, Il socio, ecc. anche The Interpreter imposta un difficile dilemma interiore, ma a differenza di tutti gli altri film questa volta il teatro è il mondo intero, o almeno il luogo che ne è il concentrato: il palazzo dell’Onu. La campagna promozionale della pellicola ha molto insistito sul fatto che per la prima volta è stato concesso il permesso di filmare al suo interno. Si tratta certo di una novità, il cui valore è tuttavia simbolico. Va da sé che dal punto di vista dell’immaginario essa non fa alcuna differenza.
[…] Nella scena in cui la ragazza tiene sotto mira il presidente, questi è costretto a leggere le prime righe del volume autobiografico scritto quando egli era ancora un galantuomo, ed in esse si afferma che la verità è inarrestabile, che non esiste rumore al mondo che la possa sovrastare, che anche solo il bisbiglio di un uomo libero che la pronuncia potrà essere udito al di sopra dei fragori delle battaglie, delle guerre, delle armi da sparo. In breve dunque: Sylvia per larga parte del film non sa bene qual è la verità, conosce i propri sentimenti (per il fratello, per l’uomo politico che ha amato), detesta il presidente per ragioni personali molto drammatiche e di sicuro sa che egli ha tradito la causa, ma ancora non conosce la verità (non foss’altro che quella relativa al presunto imminente assassinio). Ecco allora che la sua incertezza di interprete assume un valore simbolico altissimo. Qualcuno a un certo punto le dirà che lei è soltanto un’interprete e che non è tenuta a opinioni politiche personali, e Sylvia risponde che se al mondo tutti si parlassero – ciò che si può fare solo grazie a degli interpreti – il pericolo di guerra sarebbe scongiurato. Ovviamente anche le nazioni più bellicose si parlano fra loro, e dunque non è questione di scambiarsi note diplomatiche. La parola cui allude Sylvia ha davvero bisogno di un interprete, ché solo questi può costituirsi parte attiva in un potenziale processo di pace. Insomma, Sylvia (e il film con lei) ci dice che l’interprete non è colui che “traduce fedelmente”, ma colui che traduce con il fine di appianare ciò che è frastagliato, accidentato, pericoloso. Se questo è vero, va da sé che chiunque voglia a qualunque costo la guerra e la violenza deve eliminare qualunque interprete così come chiunque si frapponga tra se stesso e il potere. The Interpreter dunque – cosa non rara nella filmografia pollackiana – è una pellicola sulle responsabilità, una pellicola su un problema etico nella misura in cui esso è anche politico.
Le cose però sono più complicate: secondo l’usuale modello pollackiano, il problema etico-politico si intreccia con i sentimenti personali. Non tanto quelli che ci riportano al nostro passato, ma soprattutto quelli che prendono forma nel presente. Fra i due protagonisti nasce un’intimità dovuta primamente a una semplice ragione: ambedue sono stati messi a dura prova da una perdita. […] In certo senso ambedue sono relitti, individui senza più riferimenti affettivi che si ancorano l’uno all’altra per poter continuare a andare avanti. È una situazione che Pollack predilige, l’abbiamo vista in quasi tutti i suoi film. Ma per la prima volta il rapporto è, per così dire, del tutto esterno, nel senso che The Interpreter è probabilmente la prima pellicola del regista senza scene d’amore. […] Deve essere costata molto al regista questa inevitabile scelta: Pollack intrattiene con le scene d’amore un rapporto molto particolare.
[…] governare questo intrico di sensazioni e sentimenti senza che il film non ne soffra nella sua confezione di storia a forte suspense è cosa che richiede un regista consumato. E Pollack lo è: The Interpreter è certamente il suo thriller più veloce e mozzafiato in assoluto, non un solo minuto di requie è concesso a chi guarda, ogni sorpresa ne innesca un’altra che esplode subito dopo. […] Il gioco di takes è veloce e perfetto, il malinteso e l’interrogazione regnano sovrani su tutta la lunga sequenza, intervallata da un’altrettanto frenetica serie di scene che mostrano Keller in contatto telefonico con i suoi uomini nel tentativo di capire che cosa stia succedendo e di evitare il peggio (qualunque cosa sia).
[…] Poi sullo schermo vedi Pollack in persona che dà ordini al suo agente e pensi che la presenza scenica è un po’ come il coraggio per Don Abbondio: se non ce l’hai non te la puoi dare, e lui invece ce l’ha, ce l’ha a un punto tale da farti pensare di essere lì non per recitare come tutti gli altri attori del film, ma per dare loro le direttive necessarie al miglior esito della performance, per fare il regista non solo dietro ma anche davanti alla macchina da presa, come del resto aveva fatto in Tootsie, dove, come agente teatrale, cercava di comandare a bacchetta Michael/Hoffman senza riuscirci nell’uno come nell’altro caso. Qualunque cosa si possa pensare di questo o quello dei suoi film, Pollack è un autore e un professionista. E The Interpreter un thriller firmato. [...]