Che Nocturama di Bertrand Bonello (in questi giorni presentato alla Festa del cinema di Roma, nella sezione Alice nella città) avrebbe creato un certo scalpore alla sua uscita nelle sale francesi, lo scorso 7 settembre, lo si era intuito già da qualche mese.
Progetto al quale il regista lavorava dal 2010, il film avrebbe dovuto intitolarsi ironicamente «Paris est une fête», riecheggiando lo splendido romanzo di Hemingway Festa mobile, ma a seguito degli attentati del 13 novembre 2015 la produzione, d’accordo con il regista, decide di cambiare titolo nel più cupo e evocativo Nocturama. A metà aprile di quest’anno, quando viene reso noto il programma del Festival di Cannes, coglie un po’ tutti di sorpresa non vedere Bonello né in competizione ufficiale, dove solitamente è di casa, e nemmeno in sezioni parallele come la Quinzaine des réalisateurs. Il film è stato visto dai selezionatori, ma in conferenza stampa Thierry Frémaux rimane vago coi giornalisti che chiedono spiegazioni, lasciando intendere che forse, il film, non l’ha visto. Édouard Waintrop, delegato generale della Quinzaine, da parte sua rifiuta il film, ritenendo il contenuto politico inaccettabile. Se da un lato è comprensibile la volontà di Frémaux di preservare il clima allegro e un po’ circense di Cannes, senza intaccarne il glamour con le polemiche che un film del genere avrebbe portato con sé, dall’altra parte è interessante osservare come la critica si sia divisa in queste settimane tra chi considera Nocturama un capolavoro, come Jean-François Rauger su “Le Monde” («Un grande film si riconosce dalla capacità di portare a un alto grado di fusione le caratteristiche essenziali e contraddittorie del cinema: rendere le idee sensibili e filmare corpi in movimento, produrre pensiero e catturare la realtà visibile”), e chi trova sia un film deludente e mancato, come Gaspard Nectoux su “Les Cahiers du Cinéma” (“Il cinema francese lotta ancora contro il suo vuoto politico”).
Se nel progetto iniziale Nocturama avrebbe dovuto raccontare un atto di insurrezione da parte di giovanissimi parigini, che non trovano altro modo per sbloccare una situazione di immobilità sociale e politica se non attraverso un gesto “punk”, per definizione dello stesso Bonello, il film si rivela invece come una geniale riflessione sul sistema capitalista, già terminale e sfinito, eppure ancora in grado di insinuarsi in un corpo-cadavere in decomposizione, e come un parassita consumarlo definitivamente. I ventenni protagonisti non discutono di politica, non espongono alcuna ideologia attraverso il linguaggio, non scrivono comunicati, non rivendicano nulla. Nessuna dialettica. Per tutta la prima ora vediamo questi ragazzi deambulare per la città, prendere la metropolitana, scattare delle foto coi cellulari e spedirle, incrociarsi fingendo di non conoscersi.
Gli attentati che si apprestano a attuare nel corso della giornata hanno come obiettivo una banca HSBC, la Jeanne d’Arc in Rue de Rivoli, alcuni appartamenti e uffici in un grattacielo alla Défence, un ministero. Simboli del potere e dell’economia, che lasciano intuire la matrice anti-capitalista delle loro azioni, senza mai esplicitarla. Risulta dunque disturbante e sconvolgente la seconda parte del film, quando i protagonisti si rifugiano nel grande magazzino La Samaritaine, per potersi confondere con facilità in mezzo a gente anonima, assecondati da un amico lì impiegato come vigilante. Il desiderio per “le cose” esposte, o meglio, per il potere immaginifico e simbolico che le cose rappresentano – abiti, scarpe, gioielli, apparecchi elettronici, cibi costosi –, la forza seduttiva esercitata da queste sui terroristi, svelano tragicamente non soltanto il vuoto nel quale agiscono e l’inconsistenza delle loro convinzioni, ma come l’ideologia consumista, nella sua versione ormai svuotata e inerte, riesca ancora a soggiogare anche le menti meno disponibili, condizionando comportamenti e scelte.
A dire il vero, l’ambiguità nella quale i protagonisti si muovono è già suggerita da una delle primissime sequenze del film, quando una delle ragazze, preparandosi per uscire di casa e dirigersi verso uno dei bersagli per posizionare l’esplosivo, si veste e si agghinda – la scelta di una camicetta che le stia bene, il bracciale grazioso al polso – come se stesse andando a una festa o a una serata tra amici. La doppiezza inconsapevole nella quale i giovani attentatori sono immersi esplode nel corso della nottata trascorsa nel centro commerciale. La rivoluzione non è un pranzo di gala, eppure uno a uno iniziano a indossare giacche e vestiti eleganti, mettendo da parte i propri che, benché meno lussuosi, appartengono in egual misura a certi dettami della moda corrente, permettendo loro di sostenere il proprio narcisismo e appartenere all’epoca corrente. Risulta dunque emblematico il ragazzo che osserva un manichino abbigliato come lui, in seguito si trucca, appoggia sulla testa una parrucca, scende una scalinata cantando My Way, mettendosi letteralmente in scena, facendosi poi un bagno in una vasca del reparto “Casa”, sorseggiando vino, e sdraiandosi su un letto dalle lenzuola di seta, con una vestaglia altrettanto raffinata, la pistola in mano, quasi a voler imitare il Tony Montana di Scarface. L’esaltazione nel vedere le proprie gesta alla tv (“Parigi non sarà più la stessa dopo oggi”), il gesto gratuito compiuto da uno di loro invitando il clochard con la compagna a raggiungere il gruppo per mangiare e bere, quasi a poter elargire ricchezza ai più poveri, come un re che conceda al popolo di cibarsi al proprio tavolo per una volta, rivelano come la vanità sembri essere il vero motore delle loro azioni.
Nocturama non è dunque un film sul terrorismo, benché sia possibile intravedere il medesimo vuoto politico (ma non ideologico) dei protagonisti negli attentatori che negli ultimi mesi si sono resi celebri con le loro gesta sanguinarie, al quale andrebbe aggiunta la frustrazione di non arrivare a sentirsi totalmente riconosciuti e accettati all’interno di una comunità, che è fondamentalmente una comunità di consumatori. Basterebbe guardare le immagini dei ragazzi che hanno compiuto le stragi al Bataclan, le foto che li ritraggano mentre “si mettono in posa” con la pistola, il modo di usare i social network. Non c’è alcuna differenza tra il loro modo di mettersi in scena e quello dei coetanei che si fotografano in vacanza. Salvo che le immagini dei primi sembrano le brutte copie, povere, dei secondi. La vera frustrazione è sentirsi, in fondo, degli occidentali mancati, ossia dei consumatori mancati. E la reazione diviene tanto più violenta quanto più la ferita narcisistica è profonda.
Il film di Bonello, senza affrontare direttamente la mortificazione dell’esclusione dal gruppo, mostra ciò da cui tutto ha origine: la fascinazione per le immagini e i simboli del consumo. Il desiderio dei protagonisti non è rivolto ai prodotti – per averli basterebbe compiere un furto – ma alla loro immagine, al loro potere simbolico, capace di trasformare, quasi magicamente, non solo il sembiante dei ragazzi, ma le loro personalità. «Ma non ti sembra che così io sia veramente io?» chiede il ragazzo con la vestaglia di seta che scimmiotta Tony Montana all’amico. In fondo è ciò che Jeremy Rifkin chiama capitalismo culturale.
Come dice Slavoj Žižek in The Pervert’s Guide to Ideology di Sophie Fiennes (2012), «già Marx aveva a suo tempo dimostrato che una merce non è mai solo un semplice oggetto che compriamo e consumiamo. Una merce è un oggetto pieno di dettagli teologici, addirittura metafisici. La sua presenza riflette sempre una trascendenza invisibile. E la classica pubblicità della Coca-Cola si riferisce apertamente a questa assenza, a questa qualità invisibile. La Coca-Cola è La Cosa Reale o Coca-Cola - Questo è tutto. Che cos’è questo Tutto, La Cosa Reale? Non è solo un’altra proprietà positiva della Coca-Cola, qualcosa che può essere descritto o individuato attraverso analisi chimiche, è un misterioso qualcosa di più. Questo eccesso indescrivibile che è l’Oggetto-Causa del mio Desiderio. Nelle nostre società post-moderne, come ormai le chiamiamo, siamo costretti a godere. Il godimento diventa una specie di bizzarro, perverso dovere. Il paradosso della Coca-Cola è che hai sete e la bevi ma, come tutti sanno, più la bevi e più hai sete. Un desiderio non è mai semplicemente il desiderio di certa cosa. È sempre anche il desiderio del desiderio stesso. Il desiderio di continuare a desiderare. Forse l’orrore ultimo di un desiderio è quello di essere completamente saturo, in modo tale da non desiderare più. L’esperienza melanconica estrema è l’esperienza della perdita del desiderio stesso».
Il potere di seduzione dell’immaginario legato al prodotto, di cui il prodotto diventa il semplice rappresentate, e non più viceversa, è in fondo alla base del successo del “No” nel referendum del 1988 in Cile, la cui campagna ricalca in maniera esplicita gli spot della Coca-Cola (come viene genialmente mostrato nel film No, i giorni dell’arcobaleno di Larraín).
La distanza tra la rappresentazione di sé dei protagonisti di Nocturama, che rispecchia la loro situazione reale, e quella in fondo sognata e che per una notte appare a portata di mano, è la condizione fondamentale affinché si sviluppi il desiderio. Lo scarto non più tra la realtà e l’immaginazione, ma tra due immaginari. La Samaritaine è un grande magazzino di lusso, ma non è la ricchezza concreta a essere seducente, la ricchezza è una condizione materiale, in questo caso, per ottenere accesso a un immaginario. Non serviva, per esempio, essere ricchi, per comprare e bere una Coca-Cola. È l’allegria e l’idea di festa che la Coca-Cola rappresenta a essere seducente.
Quest’estate le radio di tutto il mondo sono state invase dal singolo di Justin Timberlake, estratto dalla colonna sonora del film di animazione Troll (2016): Can’t Stop the Feeling! Il videoclip della canzone, per la regia di Mark Romanek, è semplicemente eccezionale. Al contrario del video di Happy di Pharrell Williams (a sua volta parte della colonna sonora di Despicable Me 2, 2013), in cui gente comune si mischia a gente nota (Steve Carell, Kelly Osbourne, Magic Johnson, Sérgio Mendes, Jimmy Kimmel, Jamie Foxx, Ana Ortiz, tra gli altri), e tutti danzano sorridenti per strada, su un autobus, in non-luoghi condivisi, ma assieme, nel video di Can’t Stop the Felling!, a parte Justin Timberlake, tutti sono sconosciuti e tutti ballano da soli in non-luoghi davvero ordinari e working class: una tavola calda, un lavaggio auto, una lavanderia a gettoni, un supermercato, un negozio di suppellettili a prezzi stracciati, aperto 24 ore su 24, un bar per ciambelle e caffè take-away, un barbiere di quartiere. Non c’è nulla di allegro o divertente nel passare due ore in una lavanderia a gettoni, nel fare la spesa al supermercato o nel portare l’auto a lavare. Da soli, tra l’altro. Ma questi sono i luoghi in cui la maggioranza delle persone negli Stati Uniti (ma ormai anche nel resto del cosiddetto Occidente) trascorre gran parte del suo tempo. Quel che il video trasmette con una naturalezza estrema è la dignità di luoghi e abitudini considerati in buona parte dell’Europa ancora degradanti (si è mai visto qualcuno in un film italiano o francese, per esempio, andare a mangiare da McDonald’s senza che questo appaia deprimente o legato a classi meno abbienti?), trasformando quel che per molti è la quotidianità, in un’esperienza gioiosa. In un certo senso è lo spot della Coca-Cola aggiornato al tempo attuale. Quello che viene promosso e venduto in questo caso, però, non è un prodotto, una bevanda, e nemmeno una canzone (che si vende benissimo da sola, per altre vie), è uno stile di vita, rendendolo desiderabile.
La logica di fondo, dunque, è sempre quella del capitalismo culturale, dal quale sembra non si riesca a uscirne nemmeno con le bombe. Anzi, quelle bombe sono la dimostrazione di come per quel desiderio si sia disposti a distruggere, uccidere e morire. Enjoy!