A casa nostra è naturalmente un film politico con uno specifico riferimento all’attualità francese, ma qual era la tua reale intenzione? Fare un instant movie? Un film militante? Quello che si racconta è facilmente riconducibile ai rischi rappresentati dal populismo che tutti i paesi del mondo possono sperimentare.
L’idea del film mi è venuta mentre giravo Sarà il mio tipo?, che è ambientato proprio nella regione del Nord-Pas de Calais dove si svolge anche A casa nostra. Quando sul set mi sono accorto che su circa 200 persone provenienti dalla zona (tra comparse, maestranze ma anche per esempio quelli che ci avevano affittato le case) quasi 80 avrebbero votato Front National alle elezioni municipali, ho pensato che bisognava fare qualcosa. Si trattava di persone intelligenti, miti, ragionevoli eppure stavano per votare Front National, come era possibile? Ho cominciato allora a documentarmi, a fare ricerche e a parlare con le persone e ho capito che c’era una generale inconsapevolezza o rifiuto di vedere che quella formazione politica aveva delle parti oscure molto pericolose. Questo perché negli ultimi dieci anni il FN ha attuato una politica sistematica di de-demonizzazione cercando di rifarsi un’immagine e creandosi una nuova credibilità. E ha fatto molta presa soprattutto su una parte di popolazione nata in un periodo in cui c’è stata una grande crisi dei valori politici in Francia. Le persone nate intorno alla metà degli anni Ottanta, anche quelle provenienti da famiglie di sinistra come Pauline, non hanno vissuto una vera trasmissione politica da parte dei padri che stavano vivendo in quel momento una cocente delusione (come appunto suo padre nel film). Questi ragazzi, abituatisi all’alternanza in cui tutti sembravano uguali, non hanno potuto sviluppare una coscienza politica. Per questo così tanti si sono candidati o hanno votato FN. Un dato interessante è che, per esempio, nel giro dei due anni successivi alle ultime elezioni il 28% degli eletti nelle file del FN ha dato le dimissioni, quando cioè si sono resi conto di cosa significava realmente militare all’interno del movimento. Ma è vero anche che il Bloc del film è un esempio di movimento populista e quello che mi interessava raccontare più in generale sono proprio i rischi del populismo che si prefigge lo scopo di annullare di fatto la democrazia eliminando le strutture intermedie che ne sono la garanzia e stabilendo un fittizio rapporto diretto tra il capo e il popolo. E poi si attua una campagna di odio, spesso proprio veicolata dai media, che si fonda sul principio fondamentale che chi è nemico del capo allora è anche nemico del popolo.
E quale è stata la reazione da parte del Front National all’uscita del film?
In realtà nessuno o quasi di loro ha visto il film; la reazione è iniziata subito dopo la messa online del trailer, che ha scatenato attacchi di ogni tipo a me e al film. Quando poi è uscito in sala è stato dato ordine ai militanti di creare centinai di falsi account per far crollare le valutazioni sui siti di cinema come Allociné o simili.
A casa nostra è però un film politico anche in un altro senso, più generale, più “umano” mi verrebbe da dire… E lo è in un modo coerente con il tuo cinema, perché parla dell’impegno non necessariamente in senso politico, ma anche sociale o morale (penso a 38 testimoni, ad esempio).
Assolutamente sì, non mi interessa un personaggio se non attraverso quello che fa della sua vita… Io faccio dei film senza Dio, nel senso che non c’è alcun tipo di trascendenza, c’è solo l’uomo di fronte al destino, alla vita, alle sue scelte. Questo è per me l’impegno: una volta fatta la propria scelta, bisogna assumersene la responsabilità negli aspetti positivi e negativi. Anche in La raison du plus faible c’era questa stessa cosa. La questione lì era: fin dove si è disposti a spingersi? C’era un monologo del mio personaggio in cui chiedevo a un altro: saresti pronto a uccidere o a morire? Tutti i personaggi dei mei film si trovano di fronte a scelte che comportano la presa di coscienza di quale sia il punto fino al quale sono pronti ad andare e, dopo aver scelto, quale sia il punto fino al quale sono pronti ad assumerne le conseguenze. Come il personaggio della moglie di Yvan Attal, in 38 testimoni, che prima decide di restare con lui malgrado la sua confessione e poi, quando capisce esattamente cosa lui ha vissuto, non riesce più a sopportarlo. C’è dunque una doppia scelta, una doppia frattura.
È questo infatti quello che succede anche alla fine di A casa nostra…
Esattamente. Pauline si trova davanti a più scelte. Impegnarsi politicamente o no determina delle conseguenze e deve decidere fino a che punto è in grado o è pronta ad andare: come gestirà le conseguenze del suo gesto rispetto ai suoi pazienti? È pronta a rompere con il padre? Quello che la caratterizza è proprio il non rendersi conto dell'importanza della scelta che è chiamata a fare, vive nel rifiuto della realtà, non vuole vedere ciò che c’è di oscuro e spaventoso nel movimento e nell’uomo di cui si è innamorata. Ma a un certo punto è necessario prendere consapevolezza, e alla fine lei prende una decisione forte, anzi due.
Nei tuoi film sembra sempre esserci il rischio che se non si fanno le proprie scelte ci sarà qualcuno che deciderà per noi e questo, a un certo punto, è avvertito come una minaccia di fronte alla quale bisogna reagire.
C’è una frase che mi ha segnato quando ero ragazzino: «Se non ti occupi di politica, la politica si occuperà di te». E qui è un po’ la stessa cosa: se non sei tu a fare le tue scelte qualcun altro le farà per te; se non sei tu a scegliere però va a finire che non sei più padrone della tua esistenza e diventi un oggetto. Quando si decide di non essere più degli oggetti bisogna intervenire prendendo la propria vita in mano. Come quando, in 38 testimoni, Attal va dalla polizia e fa una scelta che gli costerà il lavoro, la moglie, gli amici… Moralmente, però, non può fare diversamente, perché sarebbe in ogni caso coinvolto. Spesso, per di più, una scelta pesante implica che le conseguenze non coinvolgano solo se stessi ma anche gli altri. Il fatto che Pauline si presenti alle elezioni, per esempio, non coinvolge solo lei ma ha delle conseguenze sui suoi figli, sul padre, sugli amici. E ci vuole coraggio per fare questo tipo di scelte, per prendersi la responsabilità della propria vita. Io credo essenzialmente nel libero arbitrio, non credo nella consolazione o nella redenzione perché sono cose fittizie.
In molti tuoi film, è anche in A casa nostra, c’è questo modo di raccontare il paesaggio molto ricorrente, in apertura. Una sorta di avvicinamento silenzioso che spesso coglie le vie delle città, o la campagna come in questo caso, alle luci dell’alba con i primi segni della giornata che si avvia. Come se fosse l’ambiente stesso a dare la forma iniziale un po’ a tutto, a raccontare lo spirito dei luoghi, anche attraverso delle figurine che poi non avranno alcun ruolo nel corso del film (come il contadino che arando all’alba trova le bombe)…
È vero. È il grande tema della mis en place, ovvero come si comincia un film, che cosa si racconta, il modo in cui si entra nell’azione, il modo in cui si presentano i personaggi… Spesso nei film si passa molto tempo a presentare i personaggi, mentre di solito scelgo di cominciare dalla descrizione del contesto, dell’ambiente, della città, del paese, della regione, prima di passare alle persone, perché il luogo in cui essi vivono già racconta qualcosa su di loro. È un po’ come nel western dove il paesaggio racconta già la vita degli uomini, e io adotto lo stesso principio: dal momento in cui si racconta il contesto già si dice qualcosa di chi sono le persone che ci vivono. È un modo per radicare i personaggi principali in un mondo che esiste a prescindere da loro e che è costituito da un accumulo di storie personali e da caratteristiche specifiche; alcune storie, poi, verranno seguite più da vicino, altre saranno appena accennate, ma è utile a far capire la dimensione di una quotidianità che non è né banale né bizzarra ma è solo meno nota. Almeno per un parigino o per la maggior parte delle persone che non conoscono la realtà di quella parte della Francia è strano vedere quella scena ma in realtà chi conosce la vita di un contadino del Nord-Pas de Calais sa che avviene sovente che si trovino delle bombe e che si debbano gestire… E inoltre questo consente allo spettatore di fare un cesura, di prendere le distanze dal mondo esteriore, di creare una camera di decompressione in cui ha il tempo di rilassarsi, di ambientarsi entrando nel tempo del film, nel tempo del cinema in realtà.
Quello che è molto interessante nel tuo cinema è proprio questa dimensione di quotidianità nella quale improvvisamente, per un motivo o per l’altro (la candidatura per Pauline in A casa nostra, l’assassinio della ragazza in 38 testimoni, il rapimento in Rapt ecc.), il personaggio principale si trova di fronte allo straordinario…
Tutti i miei film sono in effetti delle storie di vite che vengono ribaltate; a me piace il cinema di situazione più che quello puramente psicologico, nel senso che mi interessa fino a un certo punto la psicologia della vita quotidiana mentre amo molto le situazioni che improvvisamente sconvolgono una vita e questo momento traumatico mi piace che venga mostrato quasi subito, dopo aver tracciato quelle coordinate ambientali di cui si diceva. In 38 testimoni è addirittura anticipato appena dopo i titoli di testa quando non si conosce ancora nulla della vita precedente dei personaggi. D'altra parte non è necessario soffermarsi più di tanto sulla vita normale dei personaggi perché bastano pochi elementi per suggerirla mentre quello che conta è il momento in cui quella vita viene sconvolta. In Rapt succedeva più o meno la stessa cosa, il film iniziava davvero con il rapimento, prima era necessario solo far capire chi era il protagonista, un capitano d’industria la cui vita, dopo quella frattura, non sarebbe più stata la stessa. È lo choc che mi interessa ma soprattutto quello che succede dopo, le conseguenze dell’evento traumatico; la psicologia arriva ovviamente, ma affiora attraverso l’azione e attraverso la situazione… non si può evitare, viene fuori per forza, emerge ma non deve essere il punto di partenza. Non mi soffermo tanto sulla presentazione dei personaggi perché non credo nell’identificazione, non mi ineressa che lo spettatore si riconosca in quello che vede ma che provi empatia. Che si tratti di un capitano d’industria, che si tratti di un militante di estrema destra, che si tratti di un operaio disoccupato poco importa, quello che mi interessa è ciò che permette allo spettatore di stabilire una relazione emotiva con il personaggio sulla base di qualcosa di ben più profondo che non i punti in comune nelle loro esistenze o nella situazione sociale che vivono. È l'umanità che lega nel profondo le persone, il modo di sentire le cose, l’amore, la paura…questo appartiene a tutti e accomuna tutti. Era quello che volevo mostrare proprio in Rapt, perché era anche un capitano d’industria che non viene visto con molto favore (neppure da me d’altronde) ma nel momento in cui improvvisamente questo diventa un essere umano, dimostra la sua umanità, nella sofferenza, nella paura, nella fragilità ecco che allora la sua storia merita di essere raccontata. In tutti i miei film cerco di ritrovare questo, la possibilità di essere in empatia con il carnefice come con la vittima, perché sempre di esseri umani si tratta.
A casa nostra è un film molto legato al reale ma ci sono anche tanti elementi di genere (in certi passaggi sembra una commedia, in altri quasi un noir o un film di spionaggio); l’attenzione per il cinema di genere è una costante nel tuo lavoro, addirittura nella trilogia (Un couple épatant, Cavale, Après la vie) hai scelto di passare da un genere all’altro… che cosa ti interessa del genere?
Quello della trilogia era un progetto che veniva da una questione teorica che mi toccava molto ovvero lo statuto di un personaggio secondario in un film; si parla spesso in Francia dei grandi secondi ruoli del cinema francese ma quando si va a fare un’analisi più approfondita ci si rende conto che in fondo si trattava di figure folcloristiche molto tipizzate, molto superficiali, e a me questo non piace per niente. Significa trattare il personaggio secondario con un’efficacia immediata ma facendone in fondo un semplice strumento al servizio del personaggio principale o della storia o del ritmo… invece il personaggio secondario che mi interessa è il protagonista di un film che non è stato mai fatto. Sono partito proprio da questo punto, dall’idea di raccontare una storia per poi prenderne i personaggi secondari e farli diventare protagonisti. Perché tutti siamo i personaggi principali della nostra vita e incrociamo una serie di personaggi secondari nel corso della nostra esistenza; ma tutti abbiamo la stessa importanza e dunque non c’è nessun motivo di fare di questi secondi ruoli delle macchiette.
Questo era il primo presupposto teorico della trilogia ma poi mi sono detto che non bastava, o meglio che era una cosa che interessava a me ma che lo spettatore poteva esserne coinvolto in modo relativo. Dunque mi sono interrogato sulla questione del genere: che cos’è che determina l’appartenenza di un film a un genere o a un altro? La storia? I personaggi? Il modo di recitare? Il punto di vista? Ed è quest’ultimo che ho deciso di sperimentare provando a vedere se la stessa cosa vista da un punto di vista diverso poteva diventare un film di genere diverso. Ci sono dunque delle scene che passano da essere tragiche o inquietanti a essere comiche, ce n’è una che si ripete identica in ogni film ma ogni volta è diversa perché è filmata diversamente e si inscrive in una storia diversa.
La questione dei generi che entrano quasi per caso in un film non di genere, come in A casa nostra, viene dal mio amore per il genere come oggetto cinematografico che si lega alla messa in scena e alla scrittura. Penso che ciò che dà profondità a un film di genere sia l’attenzione che si dà ai personaggi, oltre naturalmente alla situazione o all’azione. Solo trattando i personaggi in modo approfondito si dà profondità; pensa per esempio ai periodi in cui i cineasti erano meno liberi (come negli anni 30, 40 o 50 a Hollywood) eppure relizzavano film incredibili al contempo grandi successi di pubblico (noir, western, commedie) ma anche con una grande complessità umana data da personaggi che erano molto sfaccettati. Non si può certo pensare ai film di John Ford come a film di pistole e cavalli… sono innanzitutto film che parlano di persone, di esseri umani e di una società che si sta costruendo ed è anche per questo che si possono rivedere oggi senza trovarli vecchi. L’uomo che uccise Liberty Valance o Cavalcarono insieme per esempio, sono grandi film politici perché sollevano grandi questioni morali sulla violenza, sulla sua giustificazione, sulla sua legittimazione e lo fanno facendo spettacolo. Si può dire lo stesso delle grandi commedie, del cinema di Lubitsch o di Wilder che hanno una profondità straordinaria. L’appartamento, avrebbe potuto essere un perfetto film noir senza cambiare granché, magari un po’ il modo di recitare, qualcosa nella sceneggiatura, il finale... ma bastava poco. È un film esilarante ma che ti porta alle lacrime nello stesso tempo, e lo fa grazie alla profondità umana dei personaggi. Ma anche il cinema di Fritz Lang… Fury per esempio è un grande film noir ma è anche un grande film politico che magari lo spettatore non percepisce come tale ma rispetto al quale conserva la percezione del twist morale che sottende la vicenda e che è molto appassionante. È questo il cinema che mi interessa. Per arrivare a quel livello ovviamente ci vuole un talento eccezionale che non tutti hanno ma penso che sia sempre meglio prendere modelli alti che non mediocri [sorride].