Il 26 gennaio di cento anni fa nasceva Paul Newman. Probabilmente l'allievo più famoso e rappresentativo dell'Actor's Studio, seppe tuttavia declinare il Metodo in maniera del tutto personale, grazie a una presenza sia fisica che psicologica non indifferente (soprattutto, ma non solo, attraverso il famoso sguardo, espressione di energia e dinamismo poi declinata con l'età in sfumature via via più pacate e sornione). Uomo dalle molteplici attività e interessi (attore e regista, ma anche attivista, nonché pilota automobilistico talmente abile da far dire a Enzo Ferrari in persona che avrebbe voluto averlo in scuderia), lo ricordiamo con quello che è fra i film più rappresentativi della sua seconda metà di carriera, Il colore dei soldi di Martin Scorsese, nella recensione che ne fece Emanuela Martini su «Cineforum» n. 264, maggio 1987.
«Bisogna sempre trovare qualcosa che colleghi la propria autobiografia con il soggetto su cui si sta lavorando. In questo caso era: cosa mi accadrebbe se mi togliessero la mia abilità di scrittore? Cosa accadrebbe a Martin se non potesse fare film? Si diventa sterili, di ghiaccio, perché si nega la cosa che ci dà la vita. Questo è quello che accade a Fast Eddie: non gioca più a biliardo, e questo lo sta uccidendo. E la sua vita e la sua maniera di fare arte; deve riscoprire se stesso per salvarsi». Così lo sceneggiatore Richard Price a proposito di Il colore dei soldi, un film che nasce come sintesi di una certa maniera di intendere la vita di tante biografie diverse. Quella di Walter Tevis prima di tutto: lo scrittore cui si devono Lo spaccone e Il colore dei soldi, dopo i primi due fortunati romanzi (Lo spaccone, appunto, e L'uomo che cadde sulla terra), ha trascorso diciassette anni in silenzio, insegnando creative writing all'università dell'Ohio e, soprattutto, bevendo; nel 1980, dopo aver ottenuto il divorzio, ha piantato la carriera universitaria, si è trasferito a New York e, nei quattro anni precedenti la sua morte (avvenuta nel 1984), ha scritto e pubblicato quattro nuovi romanzi e una raccolta di racconti. Ci sono poi le biografie concomitanti di Martin Scorsese e Richard Price, i loro gusti e l'amore di entrambi per i bar, le sale da biliardo, luoghi maschili per eccellenza, dominati da una concezione esistenziale del gambling. Infine, Paul Newman, che ha voluto questo film e, con un rigore professionale insolito per un divo (e soprattutto per un divo con esperienze tutt'altro che trascurabili di regia), l'ha offerto a un regista non solo generazionalmente distante da lui, ma anche talmente sicuro, meticoloso, definito nella propria totale autorialità da non essere minimamente influenzabile dal carisma dell'attore. Una scommessa, in fondo, per entrambi: per Newman sottoporre un progetto amato a un autore che non ne avrebbe mai tratto una celebrazione (e infatti, in mano a Scorsese e Price, la chiave di lettura e l'andamento della storia si sono profondamente modificati); per Scorsese, da un lato, accettare il rischio di un sequel, e, dall'altro, ricondurre entro confini duramente contemporanei un eroe vagamente rétro come è Fast Eddie Felson (e Paul Newman). In parte, è stata probabilmente una scommessa reciproca sull'onestà professionale dell'altro.
Il colore dei soldi che ne è uscito non ha più le linee del racconto di Tevis, ma è una storia che a Tevis sarebbe piaciuta, giocata com'è sulle idee di sconfitta, cedimento e purificazione. È la maturità che guarda se stessa ringiovanire, o quanto meno riacquistare i colori disinteressati ed entusiasti della giovinezza. Infatti, è proprio questo colore, indefinito nella sua vivezza, che alla fine per Fast Eddie ha la meglio su quel «rettangolo di affascinante, mistico verde, il colore dei soldi» in uno dei più determinati trionfi del loser apparsi nel cinema americano degli ultimi anni. Il finale del film, nel suo ineccepibile romanticismo, è indubbiamente rétro; conduce a un risveglio etico ed esistenziale che probabilmente non ha oggi riscontro nella realtà. Certamente, questa sorta di happy ending che viene diritto dal cuore sembra in parte contravvenire all'abituale pessimismo di Scorsese. È stato un po' malvisto e velatamente interpretato come una strizzata d'occhio al botteghino. D'altra parte, l'intero film è stato visto come una battuta d'arresto nella filmografia costantemente ascendente del regista. Credo dunque che qualche puntualizzazione si imponga.
Un film di carne - Nonostante sia un seguito, elaborato su materiale altrui (e, per di più, già di per sé mitico), Il colore dei soldi è un film profondamente scorsesiano. Il regista non si è limitato a mettere la sua funambolica abilità tecnica e compositiva al servizio di un soggetto, per quanto a lui affine, costruito da altri. Ne ha fatto una storia radicalmente sua. Ci sono l'iniziazione e la corruzione, il percorso (in senso metaforico e narrativo), la coppia maschile che riflette la dinamica paterno-filiale. Tutti i presupposti che, nel bene e nel male, hanno composto l'ossatura del cinema di Scorsese qui compaiono come principale traccia narrativa. Questa è la sostanziale differenza: quello di Eddie e Vincent, dalla prima all'ultima inquadratura, è solo, in primissimo piano, un viaggio iniziatico, senza alcuna diversione narrativa o filosofica ad ammantarlo, senza notazioni sociologiche, politiche, senza storie d'amore, senza un vero plot che intrighi e distragga con il suo esito.
Nel suo andamento il film è assolutamente scarno, semplice, prevedibile. È diventato l'“ossatura” di un film, una specie di prototipo sul quale si potrebbero costruire infinite variazioni. Questo non dovrebbe stupire, dal momento che Fuori orario si sviluppa esattamente sullo stesso presupposto, anch'esso schema, grafico astratto di ogni film possibile. La differenza fondamentale tra i due è che, mentre Fuori orario è un film “di cartapesta”, Il colore dei soldi è un film di carne. Solo in questo senso si può forse accennare a una battuta d'arresto nell'opera di Scorsese. Con Fuori orario, Scorsese era arrivato alla stilizzazione più rigorosa e acre, a una raffigurazione, sconvolgente nella sua freddezza metallica, della realtà e delle sue ormai impossibili proiezioni immaginarie. Con Il colore dei soldi torna invece alla nostalgia del mito, e quindi al suo calore e alle sue suggestioni, per quanto velate, appannate dalla vecchiaia. Fuori orario è più razionale e attuale, Il colore dei soldi più sentimentale e passato. Per questo il primo è più perfetto. Film “centripeto” per eccellenza, Fuori orario è costruito secondo una circolarità che non consente fughe, è la negazione dell'illusione, del sogno, della favola, a finale lieto o tragico. La circolarità di Il colore dei soldi, invece, è bruscamente spezzata dalla “fuga” di Eddie Felson lungo una linea solitaria e anacronistica che può essere propria solo dell'immaginario, e in particolare di quello classico.
Non è però un astuto omaggio al passato, ma soltanto un soprassalto, il rimpianto subitaneo di un carattere, così come New York New York lo era di un universo scenografico e narrativo. Mentre quello ricostruiva una certa maniera di intendere e fare il cinema, appassionata e spettacolare, scandendone però attraverso lo sviluppo narrativo la progressiva impossibilità, Il colore dei soldi riporta nel contesto cinematografico contemporaneo un personaggio tradizionale, che riesce inaspettatamente a riaffermare tratti “eroici” e desueti. Stilisticamente, infatti, Il colore dei soldi rifugge da qualsiasi vezzo nostalgico: è un film durissimo, scandito, distanziante, che non lascia quasi nulla a suggestioni consuete. In questo senso, ricorda molto Re per una notte, il più acido e non conciliante dei film di Scorsese. Come quello, calibra le scelte cromatiche e della macchina da presa senza la minima compiacenza verso le aspettative del pubblico. Le sue inquadrature, prima che belle (e alcune sono veramente bellissime), sono stordenti; arrivano all'improvviso e altrettanto bruscamente svaniscono, mai più riprese nell'arco del film. I preziosismi, perciò, diventano bagliori accecanti, illuminazioni di quel «senso artistico della vita» cui accenna Richard Price nella sua dichiarazione: il magnifico ralenti in primissimo piano della stecca che colpisce la palla sollevando la piccola nuvola di gessetto, per esempio, o il totale dall'alto della sala di Atlantic City con le superfici lucidissime dei biliardi non sono fini a se stesse, compiacentemente belle, ma vere e proprie sintesi della progressione immaginaria di Fast Eddie, come lo erano i sogni di Rupert Pupkin.
Il ritorno degli eroi - Steve Jenkins ha scritto sul «Monthly Film Bullettin» che Il colore dei soldi è una rielaborazione invertita di Re per una notte, che non riesce però a raggiungere l'intensità di questo film (né di Mean Streets o di Toro scatenato) perché, a differenza di questi, le sue energie non sono mai rivolte in direzione di un'innocenza che è vista come pericolosa e inquietante. «Vincent rimane essenzialmente un fenomeno da osservare, mentre il film si concentra sul personaggio di Eddie, che considera se stesso uno “studioso di mosse umane”, estraneo al gioco che sta guardando». Entrambe le affermazioni sono perfettamente vere: Il colore dei soldi parte dal medesimo principio strutturale di Re per una notte (una persecuzione condotta fino al punto estremo dello spossessamento della personalità altrui) ed è condotto secondo la stessa dinamica triangolare, con il personaggio femminile marginale che virilmente si impossessa (arrivando, a tratti, a condurle) delle regole del gioco; contemporaneamente, però, Il colore dei soldi privilegia un esclusivo punto di vista, quello di Eddie Felson (quasi costantemente in scena).
Torniamo perciò ai preziosismi cui accennavo prima e al sorprendente virtuosismo con cui la macchina da presa, il montaggio e la colonna sonora si muovono sopra e dai tavoli da biliardo. Anche se non percepiamo le immagini attraverso la soggettiva di Fast Eddie, non c'è dubbio che ogni inquadratura e avvenimento del film siano un rimando dell'evoluzione psichica di Eddie. In questo senso, è esemplare (e stupefacente nella sua sintesi) la sequenza di apertura, tutta costruita sull'emergenza progressiva di un fattore di disturbo. Fast Eddie Felson, all'apparenza pacificato, con la Cadillac bianca e i vestiti di buon taglio, a poco a poco “sente” (anche letteralmente, da un certo modo di colpire la palla) un elemento estraneo, che lo infastidisce e contemporaneamente lo catalizza. La macchina da presa lo attira con i suoi zoom subitanei al tavolo dove Vincent sta giocando, costruendo una dinamica di allusioni e tentennamenti capaci di tracciare in pochi minuti una psicologia e una storia complesse. È il vecchio eroe rinunciatario e indurito che rivede in un altro le proprie potenzialità e i propri difetti giovanili.
Questa dinamica, tra la macchina da presa che “glorifica” il biliardo e Eddie Felson che vuole mantenere la propria distanza da manager incallito, costruisce e regge tutto il film. Vincent è veramente una figura astratta, puro movimento, divertimento ed entusiasmo, una silhouette da osservare e invidiare ed eventualmente tentar di corrompere, perché troppo perfetta e disturbante. E solo la materializzazione di quello che Fast Eddie ha negato, perciò lo vediamo quasi sempre attraverso i suoi occhi, gelosi e malinconici. Lo stesso trionfo di Vincent (nella scena del ballo intorno al tavolo da biliardo, straordinaria idea di regia a sintetizzare il personaggio) è appannato dalla rabbia di Eddie che sta addestrando l'“allievo” all'inganno. Fast Eddie Felson è l'unico punto focale e l'unica chiave del film, al punto che la sua caduta e la sua successiva “resurrezione” (che Scorsese traccia repentinamente con alcuni dei simboli cattolici cui è tanto legato) segnano la sostanziale scomparsa di scena di Vincent. Per un attimo riecheggia nel sottofondo il motivo fischiato del vecchio Spaccone e Paul Newman, con gli occhiali, appoggiato al tavolo da biliardo, resuscita con pacatezza uno dei suoi antichi gesti da Actor's Studio. Credo che, in questo senso, sia indispensabile sottolineare la sottigliezza accurata della recitazione che Scorsese ha tratto dai due protagonisti: Newman sempre sottotono, senza vezzi, tutto concentrato in lievi movimenti impacciati e in una mimica essenzialmente facciale, fatta di occhiate, invidie, scarti improvvisi; Tom Cruise (sulle cui qualità interpretative credo che nessuno avrebbe mai scommesso) tutto fisicità e gesti, movimento puro ed esibito, che, con una dose di ironia e di aderenza all'oggi, recupera alcuni dei tratti e delle esagerazioni che erano stati tipici dell'Eddie Felson giovane e di un'intera generazioni di attori.
Sottilissima analisi della vecchiaia, Il colore dei soldi rivisita contemporaneamente il cinema che, trent'anni fa, ha tracciato le linee del successivo sviluppo hollywoodiano, quello dei Rossen, dei Kazan, dei Brooks, dell'Actor's Studio, appunto. Ha lo stesso senso del melodramma, lo stesso gusto per lo scontro di caratteri, la stessa insistita attenzione per i processi di corruzione morale, attualizzati sul piano espressivo e ribaltati sul piano narrativo. Come quello era stato un cinema di giovani (addirittura la prima mitica esplosione giovanile sullo schermo), questo è un film su un vecchio. È fin troppo facile dire che è un film sulla vecchia Hollywood che osserva la nuova Hollywood, che è un rimpianto delle storie e dei caratteri del cinema di una volta, delle sue possibilità di eroismo. Lo è al punto di un insolito lieto fine. Insolito, certo, ma forse meno anacronistico e sterile di quello che sembra, almeno in campo strettamente cinematografico. Questo ritorno dell'eroe da vecchio potrebbe quindi sottolineare una voglia di tornare in campo, di riconquistare le abilità alle quali si era abdicato, di una certa Hollywood e, dietro di lei, di una certa America liberal.