Quando nel 1953 in una conferenza stampa un giornalista francese chiese a Chou En Lai, l’allora primo ministro cinese, che cosa ne pensasse della Rivoluzione Francese, la risposta del dirigente comunista fu fulminante e per certi versi geniale: "È ancora un po’ presto per dirlo”. Il senso è chiaro: un evento storico non è mai concluso. Il suo destino è sempre “a venire”: che cosa ne sarà di lui si vedrà solo da quello che accadrà nel futuro. Il passato insomma non è mai fino in fondo passato ma è sempre aperto, e dunque rivolto verso il futuro.
Un secolo e più di riflessione filosofica, da Bergson a Freud, da Heidegger a Deleuze, ha provato a pensare questa natura costantemente aperta del tempo, ma nel Novecento è stato soprattutto il cinema a dare alla riflessione sul tempo uno degli approdi più innovativi e interessanti. Apichatpong Weerasethakul, già enfant prodige del cinema thailandese negli anni Novanta, con una carriera giocata sempre sul filo tra la sala cinematografica e le gallerie d’arte, Palma d’Oro a Cannes nel 2010 con Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives, ha dedicato la sua intera opera a pensare con le immagini la non linearità e la coesistenza di temporalità differenti. Dopo aver realizzato opere che hanno decostruito in tutti i modi la forma cinematografica (celebre la sua idea di mettere i credit in mezzo al film) oggi ha presentato al Certain Regard uno dei suoi film paradossalmente più tradizionali, eppure non per questo meno audaci.
La vicenda si svolge a Khon Kaen, nel nord-est della Thailandia. La protagonista, Jenjira, è una signora che fa la volontaria in un piccolo ospedale di provincia allestito in una ex-scuola dove sono ricoverati dei soldati dell’esercito thailandese che hanno contratto una strana malattia: dormono tutto il giorno e non riescono a svegliarsi se non per pochi minuti. Dormono e sognano (perché come si dice nel film “gli uomini non smettono mai di pensare”). Itt è uno di questi e Jenjira, visto che nessuno va mai a trovarlo, passa il tempo accanto al suo letto e diventa sua amica. Nel frattempo però incontra anche Keng, una medium che è in grado di entrare in contatto con le vite precedenti delle persone e che le rivela che sul terreno della ex-scuola sono seppelliti i re di un antico regno di più di mille anni addietro, che su quel terreno fecero una battaglia. Quella battaglia è in realtà ancora in corso e l’energia dei soldati viene “assorbita” e “consumata” da questi re proprio per continuarla.
La riflessione sul tempo di Weerasethakul è come se si sviluppasse lungo due direttrici apparentemente contraddittorie. Da un lato abbiamo il suo côté spiritualista e animista: l’idea che le vite passate continuino a vivere anche nel presente; che gli spiriti abbiano un’autonomia rispetto al corpo nel quale si vengono a trovare; che la realtà sia popolata da qualcosa che va oltre la pura materia. Dall’altro lato i suoi film sono popolati da un materialismo spinto, che vediamo nella sua ossessione per i temi medici, per il corpo, per le discussioni sulle medicine, sulla salute, sulle malattie.
Vediamo queste due polarità sintetizzate in una delle sequenze iniziali dove una specie di dottore/esperto/santone fa una lezione di meditazione e per spiegarla usa dei termini che sono propri delle scienze cognitive (“i vostri pensieri non sono altro che processi fisico-chimici”). Le sue istruzioni prescrivono ai partecipanti di concentrarsi e di portare i propri pensieri nei propri piedi, nel proprio mento, nelle proprie braccia. Perché i pensieri per Weerasethakul si spostano, transitano da un corpo a un altro, da una persona a un’altra (come quanto Jenjira dice che Itt dorme anche per lei), hanno una loro autonomia che va oltre quella dei corpi pur essendo nient’altro che delle esperienze corporali.
In questo film dove l’animismo è messo accanto a discussioni su quanto le creme del corpo abbiamo lo stesso sapore dello sperma, dove vediamo una medium che parla senza problemi con dei morti e subito dopo Jenjira disquisire del mercato dei matrimoni combinati e del dating on-line in Thailandia, dove la religiosità e lo spiritualismo convivono con i corpi malati di un ospedale, Weerasethakul è capace diproporre una riflessione dirompente sulla temporalità nel cinema. Perché il problema è proprio come l’animismo, le vite parallele e le temporalità ricorsive possano essere messe dentro a un quadro che rimane immobile per interi minuti, con una macchina di presa che non si muove praticamente mai... Insomma con un modo di guardare la natura che è deprivato di ogni sentimentalismo e di ogni facile epifania spirituale. Il cinema di Weerasethakul non fa nient’altro che guardare la materia di cui è fatta la realtà, ma questa materia non è inerte, è stratificata in tempi e spazi differenti.
Il problema è quello con cui il cinema si è da sempre confrontato: è possibile guardare la realtà come se non fosse solo il qui e ora che abbiamo di fronte agli occhi? Come è possibile far sì che la macchina da presa guardi la materia ma che nello stesso tempo riesca a farci comprendere che questa materia non è solo sé stessa, ma è popolata da qualcosa che va oltre ciò che vediamo. Come possiamo insomma vedere quello che non è immediatamente visibile senza prendere la facile via di chi mette sullo schermo fantasmi e spiriti sovrannaturali (perché per Apichatpong il vero sovrannaturale non è nient’altro che la natura stessa)?
Ma quello che fa di questo film un autentico capolavoro – forse il suo capolavoro definitivo – è una sequenza quasi al termine della pellicola dove tutta questa riflessione trova la sua sintesi perfetta. Jenjira è insieme alla medium Keng e le parla della sua gamba deformata (che è di quasi 10 cm più corta dell’altra, frutto di un incidente stradale che è veramente accaduto nel 2003 all’attrice Jenjira Pongpas). Keng si inginocchia di fronte a lei, le scopre dolcemente la gamba facendoci vedere tutto della sua deformità, versa l’intruglio di medicine che Jenjira deve prendere per l’artrosi addosso sulla sua gamba quasi baciandogliela e leccandogli via l’intruglio mentre la protagonista scoppia in lacrime: in una semplice sequenza vediamo sovrapporsi la ritualità della spiritualità della medium e la deformità del corpo malato, l’erotismo insieme alla compassione e all’amicizia, la terra (Keng ha quasi la faccia spiaccicata a terra) e lo spirito. Tutti questi mondi in un’unica immagine.