Sophie Fillières, la regista, è morta nel luglio del 2023, qualche settimana dopo la fine delle riprese, e ha lasciato indicazioni perché i collaboratori e les fils concludessero la post-produzione del film. Il biografismo è nemico della critica, ma talvolta serve a raccogliere quello strato di esperienza che rima con l’emozione della visione, e nella storia di Barberie Barbie Bichette c’è l’eco lontano di un viaggio preparato verso un altrove, per trovare un metro quadrato di solitudine, che sia oltre la vita o in una verde vallata del nord dell’Inghilterra.
Costruito in tre atti, Pif, Paf e Youkou!, segue lo svelamento della malattia mentale della protagonista, Barberie Barbie Bichette, e insieme il difficile percorso di accettazione da parte di les fils, Rose e Junior (ma si chiamerà davvero così?), che passano da due diversi stili di rimozione alla consapevolezza e quindi alla condivisione.
Nel primo, Pif, assistiamo (con un filo leggero di irritazione, anche) alle disavventure quotidiane di una donna incongrua, come madre, moglie, figlia, sorella e scrittrice, ma anche vicina di casa e paziente in analisi. È davvero strana questa divorziata di mezza età, che piomba nell’agenzia di comunicazione dove lavora scrivendo poesie, dice di essere in palestra quando è a casa e poi in palestra ci va davvero, che tortura l’analista e la sorella (Valérie Donzelli, in cameo) e si tortura con i ricordi e la malattia del padre, che fa i conti con l’insofferenza adolescenziale di Rose e la benevolenza di Junior, che conosce (e riconosce) Philippe Katerine (quello vero, cantante e attore) e non riconosce il suo amore infantile, Bertrand. Conoscere e riconoscere sono i regimi che strutturano il film. Mentre scopre la donna, lo spettatore non sa ancora nulla della sua malattia, tutti gli altri sì, ma non lo (si) rivelano: Rose non vuole accettare la madre come malata, quindi non la riconosce come madre, Junior ha paura di non riconoscere (più) la madre, quindi disconosce la malattia. Travestito da comportamento stereotipico di les fils, il loro agire mette in scena in modo lancinante le due facce traumatiche dei famigliari del paziente sintomatico.
Soltanto à rebours si capisce che l’atteggiamento dell’analista (silenzioso, apparentemente disinteressato) non è una gag alleniana, ma una delle più compiute rappresentazioni della seduta analitica mai viste al cinema: quando la interrompe all’improvviso ha davvero raggiunto la “parola piena” (lo si intuisce lacaniano…) e quando attiva il ricordo del padre vuole davvero disperatamente arrivare (e attivare) all’innesco della psicosi (lo si intuisce forcluso questo padre senza madre, poi magicien). Perché Barbie, comprendiamo lentamente, è la narrazione della psicosi allucinatoria. Non è svampita, non si dimentica le cose e le persone, non confonde, non ha incontri stranianti e straniti (la donna delle borse, le bambine borseggiatrici mute), ma vive la realtà su due piani paralleli. Serve un ricovero in ospedale (scatenato dall’incontro con il rimosso della sua memoria, Bertrard) per spiegarlo a noi, e costringere Rose e Junior a fare i conti con il Reale.
La prima, trascinata per i capelli dalla Legge (l’ospedale, il protocollo, un trolley da portare, un medico da ascoltare, una visita da programmare, un cellulare da non far suonare), riuscirà a riconoscerla e poi a esserne complice nella fuga finale, il secondo agirà la sua ansia di riconoscimento (la “vede” nella scultura autorappresentante realizzata nel laboratorio creativo) fino a scendere a patti con la malattia. E su quella scultura, volto costruito, scritto nella forma plastica, da Barbie, Rose inserirà una sigaretta tra le labbra.
La sigaretta è il feticcio di Barbie, e del film: smette e ricomincia a fumare, contende con la sorella l’accendino del padre (ricordo, eredità, trasmissione), e ne nomina l’esperienza come da connasse (è bella Valérie, regista complice, più di Agnès Jaoui), ne trova anche un pacchetto nascosto in una casa che non ha mai frequentato, dalla sua amichetta inglese d’infanzia. Nel terzo atto, ai vuoti di memoria, di linearità narrativa, di congruenza, quel pacchetto di sigarette risponde come a un “più di memoria”, un “più di racconto”, un “troppo pieno” che colma le mancanze (il padre ritrovato nei giochi di carte di uno sconosciuto, Philippe Katerine ritrovato in Inghilterra, entrambi ri-ri-conosciuti). Solo alla fine si domina l’articolazione perfetta, dolorosissima, del film, l’intuizione folgorante di Sophie Fillières, condotta a termine poco prima di non esserci più, in vita, in post-produzione, nei prossimi film.
Il cinema ci ha abituato a mettere in scena la psicosi allucinatoria attraverso una disarticolazione dell’immagine (tra i casi infiniti: Climax di Gaspar Noé), oppure a una differenza nella ripetizione (il Lynch di Lost Highway, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE) o ancora nella scelta di una sola delle possibili articolazioni della realtà (Fight Club di Fincher). Perché il cinema è già rappresentazione allucinatoria, scarto di immagine, possibilità di bordeggiare l’altro dalla realtà attraverso il codice (l’analista con la scimmietta sulla libreria direbbe: il Reale attraverso il Simbolico).
In Ma vie, ma gueule, al contrario, il linguaggio filmico (decentramenti, assenza di controcampo, frontalità) fa mimesi del disperato bisogno psicotico di controllare la realtà, e anche l’apparente semplicità della messa in scena è sintomo di un sintomo. Quello che vediamo di Barbie è soltanto il modo in cui Barbie cerca di vedere se stessa, per non lasciare terreno alla psicosi.
Che invece può essere rappresentata (la psicosi è una mise en scène seconda, alternativa, doppiata, senza possibilità di mise en abyme) attraverso la disarticolazione del racconto, della diegesi, dei nessi temporali di causa ed effetto. Non ricordare (riconoscere, mostrare) ciò che si è vissuto, ma ricordare (riconoscere, mostrare) più di quello che si è esperito. Ma vie, ma gueule non significa soltanto “la mia vita, la mia bocca (o la mia faccia”), ma la vita che penso di vedere allo specchio quando osservo la mia bocca (e la mia faccia). Barbie si trova incastonata in una panoplia di specchi auto-riflettenti, e alza il dito medio. Barbie si mette un post-it con il suo nome sulla fronte e invita un’infermiera a giocare. Ma non si riconosce.