Dopo l’esordio con Bonne Mère, presentato al Certain Regard del 2021, Hafsia Herzi torna a Cannes come regista, questa volta in concorso, con un piccolo coming of age dai tratti smaccatamente kechicheiani. Certo, è facile accostare Herzi a Kechiche, dopo essere stata, come attrice, uno dei volti iconici del cinema del regista franco-tunisino; eppure non si tratta di una mera appartenenza, ma – fatalmente – anche di sguardo.
La petite dernière (nel senso dell’ultima arrivata, la sorella minore in questo caso) racconta la storia di Fatima, diciassettenne di una cittadina alle porte di Parigi, cresciuta in una famiglia di origine algerina, che scopre improvvisamente la propria omosessualità. In un primo momento sembra rifiutare il cambiamento, poi comincia a sperimentare, incontrando donne e ragazze diverse. Esperienze che le cambiano la vita e il modo di guardare il mondo. Ma il conflitto tra desiderio e appartenenza – incarnata quest’ultima dal legame tra fede musulmana e tradizione famigliare – si tramuterà presto in un dissidio interiore quasi insormontabile.
Difficile non pensare a La vita di Adele (2013) guardando il film di Herzi e viene da pensare che certe somiglianze non siano affatto casuali. La scena in cui Fatima e Li-na – la prima ragazza di cui si innamora davvero – mangiano i noodles risucchiandoli dal piatto, richiama esplicitamente una sequenza analoga del film di Kechiche. Ma anche il ritmo, soprattutto nelle scene iniziali, con Fatima a scuola tra i compagni o nei momenti in famiglia – con la camera a mano incollata ai volti e le voci che si sovrappongono nel fuori campo – ricorda da vicino quello del regista di Cous cous (2007).
Tuttavia, i paragoni – oltre a lasciare il tempo che trovano – non giovano a nessuno dei due film. Herzi, infatti, cerca una propria prospettiva e prova a costruire un film centrato sulle passioni, gli istinti e anche sull’ingenuità dell’età che racconta: un’età fatta di incertezze, di errori, di ricerca di una direzione e, come in ogni romanzo di formazione, di una voce autentica con cui parlare al mondo e farsi ascoltare. Nel caso di Fatima, questo significa inclusione, riconoscimento, essere finalmente vista e sentita dagli altri. Perché Fatima è “estranea” in casa come lo è fuori: prima a scuola, poi all’università. Ed è soltanto in un mondo – quello che scopre dentro di sé e quello che incontra fuori, fatto di appuntamenti al buio, feste notturne, case di sconosciute e manifestazioni LGBTQIA+ – che riesce davvero a sentirsi se stessa. La difficoltà per lei sta proprio lì: nel tentativo di conciliare l’inconciliabile, di restare fedele a sé stessa in un mondo troppo complesso, frammentato e sconosciuto.
E il problema, forse, sta proprio qui: nel fatto cioè che il film fatichi a smarcarsi dai cliché e dalla rappresentazione più convenzionale del coming of age. Senza offrire la complessità che un tema così stratificato meriterebbe o inevitabilmente evoca. Perché La petite dernière, benché sia un’opera sincera, finisce per smarrirsi, restando in superficie e aggiungendo poco a un canone fin troppo sfruttato dal cinema contemporaneo. Per un film in concorso a Cannes, forse non basta — anche senza scomodare Kechiche.