Concorso

Resurrection di Bi Gan

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Alcuni si sono lamentati che un film così denso e così teorico come Resurrection venisse proiettato proprio alla fine del concorso, quando le soglie di attenzione di pubblico e stampa dopo quasi due settimane di festival iniziano a diventare merce rara. Eppure se c’è un film la cui posizione non può che essere quella finale (testamentaria?) è proprio questo.

Non solo perchè sulla linea di moltissime riflessioni degli ultimi due decenni sulla fine del secolo cinematografico (Holy Motors su tutti) e sul tramonto di quell’epoca dell’immagine, anche Resurrection è un film che riflette platealmente sulla fine del cinema. Ma anche perché la stessa parabola artistica di Bi Gan è in un certo senso testimonianza di un oltrepassamento del dispositivo cinematografico nella direzione di una commistione sempre più prossima all’estetica dell’arte contemporanea, di cui anche questo film è testimonianza. 

La premessa è simile a quella di The Beast di Bonello (un altro film sulla fine di un certo regime dell’immagine e dell’esperienza soggettiva moderna): siamo in un mondo dove è scomparsa la capacità di sognare (e quindi la dimensione illusoria e fantasmatica dell’immagine), che però viene conservata da alcuni esseri chiamati “Fantasmers”, che hanno la capacità di “portare il caos nel mondo” e di manipolare il tempo. Sono loro e altre figure capaci di interagire con loro, chiamate “Big Others”, attorno alla quali si struttura questo viaggio attraverso la storia del cinema che copre le due ore e mezza di immagini oniriche del film stesso: quello che per i Fantasmers dura cento anni, cioè il secolo dell’immagine cinematografica, per la donna interpretata da Shu Qi e per noi spettatori è semplicemente il tempo del film. 

Bi Gan gioca consapevolmente con la discrasia di diversi livelli. Il primo è un percorso che dal muto al capodanno del 2000 copre il cinema del ventesimo secolo attraverso innumerevoli riferimenti (da Caligari e l’espressinismo tedesco a La signora di Shangai, da Vertigo al cinema gangster di Hong Kong, da Blade Runner ai Lumière… fino a Three Times di Hou Hsiao-hsien, che è il vero meta-riferimento dell’intero film). Il secondo è una riflessione sul tempo, l’elemento portante che l’esperienza cinematografica e i Fantasmers sanno manipolare fino a una sorta di suo termine e compimento conclusivo (la fine del cinema bergsonianamente come fine del tempo come l’abbiamo conosciuto nella modernità...). La terza è una filosofia della natura della percezione, che nei diversi capitoli del film passa attraverso i cinque sensi: dallo sguardo all’udito, al gusto all’olfatto e infine al tatto, che verrà perforato in una sorta di rinuncia epifanica a ogni possibilità di manipolabilità dell’immagine.

A monte di questo c’è anche un attraversamento del dispositivo cinematografico stesso, dato che i Fantasmers (come accade sempre ai sognatori) sono a un tempo gli autori dell’immagini e coloro che le guardano: ed è proprio in questa sovrapposizione dell’attivo e del passivo, dello spettatore e dell’oggetto guardato, del guardante e del guardato che il film si concluderà allo zenith della suo compimento con la loro divisione. Lo sguardo si separa dal vampiro, che diventa finalmente oggetto all’interno dell’immagine. 

E in effetti è proprio in questo processo d'isolamento dello sguardo che va letto non solo il piano sequenza conclusivo (che è ormai la cifra stilistica di tutte le “conclusioni” dei film di Bi Gan), ma anche il compimento della missione storica del cinema stesso: uscire dal fantasma - bruciando letteralmente gli spettatori come se fossero cera - per far sì che lo sguardo si liberi dalla sua forma storica novecentesco.

Cosa c’è dopo? Non tanto una morte, ci sembra dire Bi Gan, che in questo senso si allontana dal mood nostalgico ed elegiaco che contraddistingue moltissime riflessioni sulla morte del cinema… quanto la sua resurrezione. Che probabilmente avrà una forma diversa, verso la quale Bi Gan con la sua estetizzazione dell’immagine sempre più vicina all’arte contemporanea si sta già dirigendo.