Peter Bogdanovich, morto all'età di 82 anni lo scorso 6 gennaio (era nato a Kingston, New York, nel 1939), si è ritagliato il suo spazio tra i grandi della storia del cinema con sostanzialmente pochi lavori e pochi anni di attività cruciale, tra la metà degli anni ’60 e i primissi anni ’80.
Un pugno di magnifici libri e ancora più belle interviste ad alcuni giganti del cinema hollywoodiano – Orson Welles, John Ford, Howard Hawks, Fritz Lang, Allan Dwan (quest’ultimo riscoperto, conosciuto e amato proprio grazie al suo lavoro) – e altrettanti film: uno dei più grandi di sempre, L’ultimo spettacolo (1971), amatissimo, citatissimo e tra i più significativi della New Hollywood, il più bello e straziante atto d’amore per il cinema, la fine della giovinezza, le small town americane e il loro paesaggio mitico e desolato, e prima ancora l’esordio al fianco di Roger Corman, Bersagli (1968), dove il personaggio che lo stesso Bogdanovich interpretava diceva una cosa già definitiva («Tutti i film belli sono già stati fatti»), e dopo la commedia screwball alla Hawks, Ma papà ti manda sola (1972), e quella dolce e malinconica alla Frank Capra, Paper Moon (1973).
In seguito, già a partire dall’affascinante ed economicamente disastrosa trasposizione di Henry James Daisy Miller (1974) – un altro d’amore, non più per il cinema, ma per la donna di cui all’epoca era innamorato, Cybill Shepherd – la carriera di Peter Bogdanovich, il giovane critico diventato regista di successo, ambizioso e con l’aria da primo della classe, pericolosamente incline alla deriva autoriale e produttiva della generazione di giovani autori che salvò il cinema hollywoodiano per poi finirne vittima (com’è noto, con Coppola e Friedkin fondò la The Directors Company, una costola della Paramount, che produsse Paper Moon, La conversazione e fallì proprio dopo Daisy Miller), è almeno fino all’inizio degli anni ’80 un’infilata di generosi fallimenti ed errori fatali: film belli ma ripetitivi (Vecchia America, 1976, una buffa celebrazione dei pionieri che fondarono Hollywood); film fiacchi o, peggio ancora, ammettiamolo, ossessionati dall’idea di riprodurre il cinema classico con spirito necrofilo (il musical Finalmente arrivò l’amore, 1975, un disastro oggi quasi introvabile); film, ancora, così isolati e orgogliosi della propria indipendenza da diventare morbosi e al tempo stesso bellissimi, come il noir Saint Jack (1978), che, però, ammettiamo anche questo, non regge il confronto con L'assassinio di un allibratore cinese di Cassavetes, con cui condivide il protagonista Ben Gazzara, e soprattutto la commedia fantasiosa, inventiva, anche questa un po’ decadente e malinconica, … e tutti risero (1981), che oggi è stata giustamente rivalutata (su internet c’è una bella conversazione sul film tra Bogdanovich e Wes Anderson, produttore del suo ultimo e piacevole film, Tutto può accadere a Broadway, 2014, che provava a rinverdire i fasti di Ma papà ti manda sola), ma all’epoca segnò la fine di Bogdanovich a Hollywood, l’ennesimo fallimento commerciale a cui seguirono il tentativo disastroso di riprendersi i diritti del film e soprattutto l'omicidio di una delle sue protagoniste, la playmate e attrice Dorothy Stratten, all’epoca fidanzata di Bogdanovich, uccisa dall’ex marito geloso.
La vita, e soprattutto Hollywood, non sono state benevole nei confronti di Bogdanovich. Qualche anno fa sulla rivista Vulture apparve una lunga intervista in cui il regista raccontava la sua versione della storia – la depressione e la solitudine dopo la tragedia, lo shock di fronte a Star 80, il film di Bob Fosse che ricostruiva la vicenda, gli incredibili sfottò di Billy Wilder, la sensazione di un mondo che si prendeva la rivincita nei confronti di un figlio saccente e ambizioso – dalla quale emergevano certamente rabbia, rancore, senso d’ingiustizia e impotenza, ma anche una lucidità che nessuno, se non un reietto, poteva permettersi.
Il punto di non ritorno nella carriera di Bogdanovich è stato senza dubbio l’omicidio di Dorothy Stratten, donna bellissima e sfortunata a cui lui dedicò un libro, The Kiling of the Unicorn, Dorothy Stratten 1960-1980, e della quale poi sposò la sorella. Dopo quel tragico fatto la sua carriera già compromessa subì interruzioni e rallentamenti, con qualche sporadico ritorno oggi un po’ datato – come il bello e giustamente famoso Dietro la maschera (1985), come Texasville (1990), séguito di L’ultimo spettacolo sempre tratto da un romanzo di Larry McMurtry non certamente all'altezza del precedente, o il divertente Rumori fuori scena (1992) – e in generale con una serie di film anonimi e dimenticabili che negli anni '90 e oltre certificano, in generale, la sconfitta di molti protagonisti della New Hollywood e nel suo caso particolare la triste parabola di un regista finito, escluso dal giro che conta, incapace di ritrovare l’ispirazione, sempre magnifico come oratore ma dietro la macchina da presa condannato a rimpiangere il suo tocco e costretto ad accettare commissioni umilianti.
Woody Allen lo prese pure in giro in Hollywood Ending, quando il suo personaggio, un regista decaduto e un tempo famoso, chiedeva al suo agente se per caso era andato in porto quel progetto di un film tv sull’aborto interrazziale da accoppiamento dei geni e quello gli rispondeva: «Quelli della tv hanno deciso di darlo a Peter Bogdanovich»…
La grandezza di Peter Bogdanovich come uomo di cinema, come critico e regista che al cinema ha dato tutto e dal cinema ha avuto molto, ma non tutto, la si comprende confrontando il suo amore per i film, i loro autori, il loro contesto e la loro forza con quello di Martin Scorsese, di tre anni più giovane, con analoghi inizi di carriera e diverso destino. Quando Scorsese parla di cinema americano – ad esempio nello stupendo Un viaggio personale attraverso il cinema americano – lo fa da spettatore e da regista, condividendo le sue intuizioni, le sue emozioni, e facendo emergere in modo contagioso e appassionante il desiderio di emulare ciò che vede; Bogdanovich, invece, quando scriveva e parlava di cinema, quando conversava con i registi di cui era amico e accompagnatore (soprattutto nel caso di Welles), lo faceva da critico, da storico, da programmatore, da archivio vivente, da ammiratore pronto a diventare a sua volta maestro, con spirito di devozione, confronto e divulgazione.
Il suo lascito principale al mondo che ora ha lasciato, a parte quel film di bellezza straziante, quel film, come ha scritto James Bening, «che ti insegna a comprendere l’importanza degli spazi», con il cinema chiuso sulla piazza vuota e polverosa, i pozzi di petrolio all’orizzonte, il confine del Messico a un passo, i due amici che si litigano la stessa ragazza, il laghetto e i ricordi, il vecchio cowboy, Fiume rosso proiettato al cinema e Come le foglie al vento negli occhi (c’era già tutto in McMurtry, ma Bogdanovich con il suo bianco e nero fece dell’immaginaria Anarene, Texas, un luogo puramente e unicamente cinematografico), a parte quel capolavoro inarrivabile che è L’ultimo spettacolo, il lascito principale di Peter Bogdanovich è aver insegnato che il cinema è un amore, un compagno di vita, un’ossessione. Magnifica, ovviamente.