Giorgia Cerruti, Piccola Compagnia della Magnolia: Cenci. Rinascimento contemporaneo e l’anarchia del male

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La storia è nota. L’11 settembre 1599 a Roma, Beatrice Cenci, nobildonna appartenente a una delle più influenti famiglie rinascimentali, viene giustiziata per parricidio (insieme al fratello Giacomo e alla matrigna Lucrezia, si salvò solo il piccolo Bernardo, condannato alle galere con la confisca dei beni), per essersi difesa dai ripetuti abusi del padre violento.

Giorgia Cerruti, anima e corpo di Piccola Compagnia della Magnolia - da lei fondata nel 2004 con Davide Giglio, - scrive e dirige Cenci. Rinascimento contemporaneo, ultimo capitolo della trilogia dei Vulnerabili. Tanti sono gli autori che nel tempo si sono occupati della vicenda, a partire da Percy Bysshe Shelley (1819), per arrivare a Antonin Artaud (Les Cenci, 1935) che trovava la storia esemplificativa del suo “teatro della crudeltà”. Ma ne parlarono anche Stendhal (in Le cronache italiane) e Alexandre Dumas (1819).

La Cerruti parte da questi autori e dagli atti del processo contro Beatrice, allargando il campo a Camus (il suo Caligola ha più di un punto di contatto con Francesco Cenci), Mary Shelley, arrivando a Neige Sinno che in Triste tigre (2023) narra senza sconti gli stupri subiti per anni da parte del patrigno e alle opere di Virginie Despentes (soprattutto King Kong Théorie, 2006).

Ne viene fuori uno spettacolo denso, politico, emotivamente forte e tristemente attuale. Ambientazione lynchiana in cui predomina il colore rosso, con pochi significativi oggetti (un sontuoso tappeto, una poltrona-trono, un tavolo per la colazione che all’occasione diventa tavolo da obitorio…). Qui si muovono i personaggi, di rosso vestiti: Lucrezia, matrona romana interpretata da una convincente Cerruti, lo spietato Francesco, un inquietante Francesco Pennacchia e Beatrice, l’eroina interpretata da un’incisiva Francesca Ziggiotti. A loro si unisce Davide Giglio nelle doppie vesti di Tonino, alter ego di Artaud che si aggira come il piccolo Bernardo su una bici con le rotelle ponendo domande scomode, e dell’ambiguo cardinale Camillo. Dopo il debutto al Festival delle Colline Torinesi e le date al teatro Gobetti di Torino, Cenci. Rinascimento contemporaneo sarà in tournée. Abbiamo incontrato Giorgia Cerruti.

Lo spettacolo inizia con una festa in cui i personaggi indossano una maschera, come se interpretassero un ruolo in società. Poi si tolgono la maschera e viene fuori la loro vera, spaventosa, natura. È così?

C’è sicuramente questa lettura come correlato simbolico. Il punto di partenza iniziale, più concreto, è però il Carnevale romano. Indagando il periodo rinascimentale in cui è avvenuta la vicenda dei Cenci, ho scoperto che all’epoca il Carnevale romano era ben più famoso e conosciuto di quanto poi non sia diventato quello di Venezia. Ed era a dir poco cruento: in giorni prestabiliti i ricchi della società o gli uomini del papato si divertivano a veder sfilare gli storpi in abiti carnacialeschi, deridendoli e colpendoli con oggetti contundenti. Poi era la volta delle donne, degli ebrei.. era una parata sinistra. Uno dei numerosi viaggi Roma-Petrella e viceversa del conte Cenci capitò proprio durante il Carnevale e lui stesso si travestì. Mi sembrava interessante partire da questo dato. La vicenda di Artaud, ma anche di Shelley, inizia con il ritorno del Conte dopo la scarcerazione e ho pensato di far celebrare il suo ritorno in concomitanza con la festa in maschera. Una scelta che ha portato con sé un’evidente connessione simbolica di queste maschere sinistre, stravolte, a tratti orrorifiche che hanno tutti gli attributi della violenza e della distorsione con il corrispettivo animo umano. Beatrice è l’unica che ha una maschera più dolce, quasi veneziana. Gli altri tre hanno maschere che sono quasi vizi morali impressi sul volto. Le maschere, realizzate dal maestro Lucio Diana e da Adriana Zamboni in cartapesta, sono ispirate a tre reali maschere del carnevale romano.

Francesco Cenci è un personaggio solo negativo, un cattivo a tutto tondo, come non se ne incontrano spesso…

Da tutte le diverse suggestioni utilizzate emergeva un dato inquietante: non ci sono ragioni precise al male da lui compiuto. Come noti giustamente, se si recuperano altri cattivi della storia del teatro si risale sempre un po’ alle loro origini, penso a Riccardo III, al fatto di essere storpio… Invece è impossibile collocare la nascita del male nel conte Cenci, è un male gratuito in lui. Analizzando i testi su cui ci siamo basati ci siamo spesso chiesti perché, per quale motivo? Ed è il leitmotiv che ho messo in bocca a Tonino. Forse solo Moravia, novecentesco, figlio di tutta la psicanalisi, in una sua riscrittura ha attribuito il male di Cenci alla noia. Però anche lì c’è una spiegazione, ma non un’origine, è qualcosa di sinistro che riporta a certi gerarchi e a un certo Novecento, a certe sorgenti del male che sembrano di natura psichiatrica.

Per Cenci hai parlato di «anarchia del male». Puoi esplicitare questo concetto?

Parlo di anarchia del male perché il male del conte Cenci è assolutamente senza regole e in quanto tale non è individuabile né arginabile, in questo è anarchico. L’anarchia è sregolata, non ha niente a che fare con la morale kantiana, la morale dentro di me che è quanto di più alto ci possa essere, che non ha bisogno di Dio, di verticali attribuite a qualche divinità. L’anarchia è la sregolatezza che non ha contorni e in quanto tale è una mina vagante.

E per quanto riguarda il «mancato rinascimento» (anche contemporaneo, come dice il titolo)?

Documentandomi ho scoperto che il periodo del Rinascimento, soprattutto romano, fu tutto fuorché positivo, era un periodo di bassezze e di crudeltà a ogni livello, domestico, sociale, cittadino veramente mostruoso, di collusioni tra potere temporale e religioso abissali, corruzione, violenze familiari non denunciate. Accanto alle meraviglie che ha prodotto nell’arte, a livello di vita sociale era tremendo. Anche oggi, seppure in termini più soffusi e sfumati, siamo in un periodo decisamente oscuro. Sento attorno a me molto forte la sensazione odierna di mancanza di fioritura personale, sociale, collettiva, e non stupisce visto che il nostro Paese è a rotoli.

Beatrice si oppone alla violenza, ma soccombe. Ieri come oggi la storia si ripete… Sulla maglietta che indossano gli attori quando ripercorrono gli atti del processo, campeggia la Medusa di Caravaggio sovrastata dalla scritta Petrify the Patriarchy. Una scelta filologica visto che anche Medusa viene decapitata da Perseo.

Sì assolutamente, è stata decapitata e la storia, come dici, si ripete perché Beatrice confidò ad alcune serve di casa Cenci di aver subito numerosi stupri da parte del padre, ma quando si trovò sotto processo, per timore della maldicenza (non avrebbe più potuto sposarsi perché violata) e, forse, anche perché era troppo sicura che la Chiesa non avrebbe toccato la famiglia più ricca di Roma, decise di non rivelare gli stupri del padre perpetrando in qualche modo un silenzio che spesso sentiamo nei casi di stupro. La Medusa di Caravaggio - che, come dico alla fine, fu presente alla decapitazione di Beatrice - mi sembrava un segno all’inverso di pietrificazione, un tentativo se vuoi anche pop, semplice di creare un cortocircuito con il presente. Ho volutamente fatto tenere le giacche semiaperte su quella maglietta, vengono tolte solo ai saluti, perché non fosse troppo marcato. Mi preme, invece, dire che il dipinto che si vede non esiste, è un lavoro di grafica altissima che ha fatto Lucio Diana prendendo la decapitazione del Caravaggio e parte di quella di Artemisia Gentileschi (anche lei, bambina, assistette all’esecuzione) invertendole. Non esistono dipinti con decapitazioni di donne, lo abbiamo creato apposta, mettendo come decapitata la testa del ritratto di Beatrice Cenci attribuito a Guido Reni.

Tra i testi che hai usato ci sono le opere di Neige Sinno e di Virginie Despentes, entrambe hanno parlato di donne stuprate.

Mi sembrava potessero risuonare come voice off dentro la voce di Beatrice. Se vuoi è il portato del presente, del contemporaneo. Neige Sinno è un pugno nello stomaco ma è anche interessante come dipinge la figura di questo genitore che lei stessa riconosce essere sì un mostro, ma in primis un malato psichiatrico. Costruendo lo spettacolo ho pensato che non esista il male tout court, ma esistano sempre deformazioni, devianze, buchi neri nell’individuo… Non sappiamo spiegare Cenci, ma probabilmente ha delle devianze psichiche profondissime. Quella forse è la spiegazione. Spesso arriviamo tardi a dei casi di cronaca nera che si sarebbero potuti individuare prima dando un occhio in più. Naturalmente queste devianze personali psichiatriche si incuneano dentro un sistema sociale che le permette e le legittima. Non sono femminista a oltranza, cerco semplicemente di essere contro i patriarcati e i matriarcati, ma è vero che continua a permanere una narrazione più maschile. La Despentes è una scrittrice che amo molto, è una femminista arrabbiata, anche con le donne…

Riprendendo le parole di Shelley, ti poni come obiettivo ultimo con il tuo spettacolo di “insegnare al cuore umano la conoscenza di sé stesso”. Un obiettivo alto, a tratti perturbante.

La tinteggiatura a tinte caldissime di uno spettacolo in qualche modo è sempre figlia di eroine e di eroi che vediamo in scena e ci piace anche per quello, ma se depotenziamo quella sensazione mantenendone l’origine possiamo intravedere nei Cenci, nelle loro abitudini familiari, il residuo di qualcosa che nei secoli e nell’ammorbidimento anche noi potremmo stanare nelle nostre famiglie, tra le nostre mura domestiche.

Lo spettacolo presenta una vera e propria partitura sonora che tu stessa contribuisci a creare in scena, sul finale, con dei suoni che si riverberano nel profondo di chi guarda.

Lo strumento che utilizzo in scena è stato realizzato dal nostro sound designer e compositore Guglielmo Diana, eccezionale musicista che lavora con noi da anni. È una plancia sonora, un misto tra idiofoni e cordofoni, e percossa da me emette dei suoni che a loro volta vengono lavorati al mixer audio da Guglielmo stesso in regia. Il mio produrre quel suono e il suo farlo durare, riverberarlo, modificarlo fa proprio sì che suoniamo a tre: la macchina, io e Guglielmo. E in più è anche un oggetto che esteticamente, proprio per come è fatto, porta con sé qualche eco di tortura.

 

 

Foto di Andrea Macchia/Festival delle Colline

 

 

Prossime date

Nuoro           Teatro Eliseo                       29-30 novembre 2024

La Spezia     Teatro Dialma Ruggiero   1 febbraio 2025

Brescia         Teatro Mina Mezzadri Santa Chiara      18-23 febbraio 2025

Trieste          Il Rossetti                             27-28 febbraio 2025

 

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