Liberamente ispirato a Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury, la nuova produzione di Sotterraneo - il collettivo di ricerca teatrale formatosi a Firenze nel 2005 con un nucleo autoriale fisso composto da Daniele Villa, Sara Bonaventura e Claudio Cirri - è uno spettacolo fondamentale, che riguarda ognuno di noi e che porta avanti la distopia di Bradbury, creandone un’altra: il futuro di Bradbury è il nostro presente, i libri sono stati tutti bruciati (Il fuoco era la cura, come dice il titolo). Cinque bravissimi performer (Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu e Cristiana Tramparulor) ripercorrono la storia del romanzo e del successivo film di François Truffaut (1966), facendo rivivere Montag, Mildred, Beatty, Faber e Clarisse, diventano essi stessi uomini e donne libro e si proiettano nel 2051 nel loro personale futuro quando un generale istupidimento ha preso il sopravvento cancellando qualsiasi cascame di pensiero complesso. Diviso in un prologo, tre capitoli e un epilogo, Il fuoco era la cura non fornisce risposte preconfezionate, ma suscita interrogativi e questioni da sviscerare. Ne abbiamo parlato con Daniele Villa.
I vostri spettacoli sono veri e propri saggi, con tanto di apparato: in questo caso il romanzo di Bradbury, il film di Truffaut, le tante canzoni sul fuoco ispirate a libri, quasi fossero note a piè di pagina. C’è dietro un lavoro immenso…
Sì, usiamo tutta la grammatica teatrale a disposizione dal punto di vista del linguaggio, dei codici. Cerchiamo di mettere in gioco un forte apparato teorico di riferimento: dietro ogni spettacolo ci sono decine di libri che vanno dalla saggistica alla narrativa e altrettanti rimandi culturali: il cinema, l’arte contemporanea, i videogiochi, le graphic novel… Dopodiché, nello spettacolo, proviamo a mettere in campo tutte le risorse che il teatro nel suo essere coacervo delle arti ci offre, quindi ci sono dei testi ma non è teatro di parola, c’è una drammaturgia ma non è un teatro narrativo, è più un teatro di filosofia in azione, ci sono le coreografie, c’è un uso dello spazio il più compulsivo possibile nel senso che si cerca di investire ogni angolo e di creare più piani di visione, per cui un performer sta facendo una cosa mentre un altro ne fa un’altra in un altro punto dello spazio. E c’è un lavoro sulle musiche che ha sempre un gancio drammaturgico: le musiche non sono scelte semplicemente per portare un’atmosfera, ma hanno dei riferimenti concettuali che danno senso alla scelta di quel brano in quel punto. Gli stessi performer si muovono tra diversi piani di rappresentazione e presentazione per cui sono loro stessi, ma sono anche i personaggi, ma sono anche loro stessi nel futuro… Speriamo che questa stratificazione accenda e stimoli gli spettatori.
Sei l’autore del testo e firmi ideazione e regia degli spettacoli con Sara Bonaventura e Claudio Cirri. Qual è il vostro metodo di lavoro?
Sotterraneo è a tutti gli effetti un collettivo per cui tutta la parte di creazione, dal progetto all’impostazione fino al montaggio finale scena per scena è un lavoro di noi tre, l’unica specifica è che io mi occupo della parte testuale, non della scrittura scenica. La scrittura dei testi compete a me, ma sta dentro al più ampio processo di lavoro del collettivo per cui sui testi intervengono i miei colleghi, ci sono parti che rivediamo insieme, parti che mi vengono tagliate, altre che mi vengono commissionate, per cui si tratta di una creazione che, a tutti gli effetti, risulta di tutti e tre.
Quello che mi piace del vostro modo di fare teatro è che non date delle risposte ma ponete piuttosto delle questioni che lavorano dentro. Non c’è nulla di manicheo, la questione viene problematizzata per cui vale tutto e il suo contrario. Penso alla scena in cui sugli schermi compaiono i titoli dei libri più disparati (Houellebecq, Darwin, ma anche Vannacci…)
Lo scopo è lavorare sulla complessità e, in senso artistico, ciò comporta una certa dose di ambiguità, di contraddittorietà per rendere “l’opera aperta”, per citare banalmente Umberto Eco. Ognuno può così avere una propria strategia di interpretazione, un modo per viversi lo spettacolo che sta guardando, per ricostruire i collegamenti di senso. Non ci interessa in generale uno spettacolo che porti un messaggio (“L’autore non è un postino” è una scritta che a un certo punto campeggia sullo schermo, ndr), che dica univocamente cosa pensare, ci interessa usare il teatro come palestra del dubbio e dell’allenamento all’incertezza. Uno dei grandi temi della nostra epoca è questa incertezza capillare e pervasiva che ci travolge tutti per più ragioni e, secondo noi, Il fuoco era la cura parla anche di questa sensazione apparentemente incompatibile con il sapiens e le sue capacità cognitive e che ci può spingere alla ricerca di soluzioni, risposte, sollecitazioni. Noi, invece, pensiamo sia più utile allenarci all’incertezza tout court, al non avere un’opinione risolta, al non essere sicuri di qual è la nostra posizione perché questa attitudine ci permetterà poi di mantenere vigile l’intelligenza collettiva e lo spirito critico.
Lo spettacolo ha struttura circolare, si va avanti e indietro sulla linea temporale, come già avveniva in L’Angelo della Storia. Ci parli di questo uso del tempo molto “cinematografico”
Il cinema è un riferimento visivo, come linguaggio, ma è anche un riferimento drammaturgico. L’intersezione di più epoche, che molti film contemporanei sperimentano, è un modo per fermare, nelle opere d’arte, il divenire storico che è un altro modo per chiamare il tempo o che è, per meglio dire, la percezione che del tempo abbiamo noi umani: un divenire storico, una specie di racconto che si dipana. Nell’Angelo della Storia le epoche si susseguono e si alternano come in una sorta di montagna russa, qui le epoche si intervallano. Ci sono tre livelli: c’è il presente dei performer quando memorizzano i libri con delle voci off, una dimensione metateatrale che poi ritorna; c’è il futuro parallelo di Farhenheit che ci ha consegnato Bradbury e di cui noi ci appropriamo riraccontandolo; infine, c’è quest’altro futuro relativo a noi, ma parallelo a quello di Bradbury che è il 2051 e quindi uno scenario di distopia che viene dal nostro presente e che somiglia alla distopia di Bradbury, ma non coincide esattamente con quella. Spostarci tra questi tre livelli ci permette di porre tutta una serie di questioni.
Oltre al film di Truffaut, con un uso del sonoro per nulla convenzionale, c’è Matrix con i due schermi arancio e blu che ricordano la pillola blu e quella rossa…
Certo. Più in generale il ruolo degli schermi - molto forte anche nella narrazione di Bradbury - e il ruolo della dimensione digitale piuttosto che virtuale è uno di quei pezzi di immaginario che abbiamo usato in Il fuoco era la cura perché il tempo schermo e il nostro rapporto con la realtà aumentata è una delle questioni del nostro tempo che volevamo toccare. L’idea di utilizzarli è venuta dall’affermazione del capitano Beatty nel romanzo (presente anche nello spettacolo): «Se vuoi che qualcuno sia felice, non fargli sapere che esistono due aspetti di una questione». Da lì siamo passati a quelle che chiamiamo dissonanze cognitive: sugli schermi vengono portate avanti affermazioni contraddittorie tra di loro, ma per le quali è difficile prendere immediatamente posizione. L’idea è di creare un piccolo, rapidissimo, stato confusionale che ci mette in quella condizione di incertezza che tendenzialmente è di disagio per noi umani perché siamo programmati per avere un’opinione netta il più rapidamente possibile perché questo ci faceva sopravvivere nella giungla. Ma la complessità contemporanea dovrebbe portarci a un altro tipo di atteggiamento.
Avete reso concreti anche i clown bianchi di Bradbury…
Come spesso si fa, gli abbiamo rubato un elemento per poi usarlo a modo nostro. In queste due distopie, quella narrativa di Bradbury e la nostra, c’è un punto in cui - senza essere la stessa cosa - coincidono: i nostri cinque performer nel futuro fanno entertainment. E vestono i panni del clown bianco profetizzato da Bradbury.
Spettacolo visto al Piccolo Teatro di Milano
Foto di Masiar Pasquali
Prossime date:
Prato Teatro Metastasio 11-12 ottobre 2024
Torino Teatro Astra, Festival delle colline torinesi 15-16 ottobre 2024
Cesena Teatro Bonci 18-19 ottobre 2024
Bologna Teatro Arena del Sole 9-10 novembre 2024
Udine CSS Udine 30 novembre 2024
Ancona Teatro Sperimentale 23 gennaio 2025
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