Prima o poi qualcuno un film su Paulo Branco doveva pur farlo. Personaggio mitico e mitologico del cinema, produttore di quasi trecento film – grazie a lui hanno visto la luce le opere di Manoel de Oliveira, João César Monteiro, João Botelho, Raul Ruiz, Wim Wenders, Alain Tanner, Chantal Akerman, Werner Schroeter, Andrzej Zulawski, Pedro Costa, Jean-Claude Biette, Mathieu Amalric, Philippe Garrel, Olivier Assayas, David Cronenberg, Jerzy Skolimowski, e la lista potrebbe continuare – figura controversa e affascinante.
Dotato di grande carisma, è protagonista di innumerevoli aneddoti – i film finanziati coi soldi vinti al casinò, la temerarietà di produrre più film allo stesso tempo, le società fallite e poi rinate – che non fanno che aumentare il mistero attorno alla sua persona. Protagonista di cadute e risalite rimane tra gli uomini più amati-odiati dell’ambiente.
Il film di Boris Nicot, Deux, trois fois Branco, presentato sia al DocLisboa che a Porto / Post / Doc – e non poteva essere altrimenti per qualcuno che vive a cavallo tra il Portogallo e la Francia e che ha letteralmente segnato il cinema portoghese degli ultimi quarant’anni – guarda a Paulo Branco con un’ammirazione evidente e con un timore quasi reverenziale, lasciando però intuire la natura multipla della sua persona-personaggio. Branco è uno, nessuno, centomila. A Lisbona inizialmente indeciso se partecipare o meno al Q&A del film (che non aveva ancora visto), si è invece presentato in sala in silenzio, ha guardato il documentario con attenzione e alla fine ha deciso di partecipare al dibattito – cosa non ovvia: non avesse amato la pellicola, sarebbe partito prima della fine senza troppi convenevoli. A Porto ha animato, assieme a Pedro Pinho, Cláudia Varejão e Matías Piñeiro, un panel dal titolo “Realizzare immagini, produrre cinema” nel quale ha rimarcato il fatto che un tempo i grandi autori non erano ossessionati dal budget come oggi, lavoravano con piccole equipe e si lasciavano guidare dal talento e dalle idee originali. E c’è sicuramente della verità nel fatto che perché un film sia un buon film ci debba essere una buona idea dietro l’opera, e che la qualità di una pellicola non è data dal denaro. Nessuno avrà da ridire su questo. Però l’ambiguità sta ne fatto che a pronunciare queste parole sia proprio Branco, poiché, conoscendo le sue vicissitudini, una frase del genere suona quantomeno beffarda.
Paulo Branco risulta inafferrabile, poiché da ottimo giocatore non solo non teme il rischio – di fallire, di cadere, di essere giudicato – ma spiazza costantemente chi gli sta di fronte poiché imprevedibile nelle scelte e nelle decisioni. Il film di Boris Nicot sicuramente non svela nulla più di quello che già tutti quanti sanno sulla vita e sul lavoro di Branco, sulla sua cinefilia, l’intelligenza, la sua grande cultura, il suo amore per i cineasti – si è sempre vantato di non leggere le sceneggiature, fidandosi o meno dei registi e dei loro progetti. In un certo qual modo ne aumenta l’aura, il mistero, il mito, evitando fortunatamente la curiosità morbosa riguardo alcune peripezie legali, mettendo comunque da parte un giudizio, benché si intuisca la profonda fascinazione.
Prima o poi qualcuno un film su Paulo Branco doveva pur farlo. E il film di Boris Nicot è un bel documentario, amorevole e non troppo soggiogato. Ma il vero corto-circuito sarebbe questo: vedere un giorno un film su Paulo Branco, prodotto da Paulo Branco, nella maniera un po’ piratesca e assai pittoresca con la quale è solito produrre i suoi film. Quella pellicola sarebbe, anche solo per il potenziale narrativo al di là del film messo in campo dal progetto stesso (un film nel film che potrebbe raccontarsi all’infinito, autoalimentandosi con false piste, divagazioni, il lavoro per un aedo insomma), un capolavoro. Ma sarà sempre un film mai realizzato, ma ancora da realizzare, un progetto in fieri, il prossimo che verrà. Eh sì, prima o poi qualcuno questo film dovrà pur farlo. Probabilmente poi.