Nel 2017 Ryūichi Sakamoto pubblica il suo nuovo, splendido, disco, async, cioè “fuori sincrono”. Un’opera che risente della malattia di Sakamoto – al quale era stato diagnosticato un tumore alla gola circa 4 anni fa – ma in cui si percepisce in maniera netta, benché difficile da spiegare, l’enorme dignità col quale il compositore affronta l’idea della morte e di conseguenza la vita.
Il disco viene eseguito al Park Avenue Armony – all’interno del palazzo Seventh Regiment Armory a New York – di fronte a un ristretto gruppo di persone. Ryūichi Sakamoto: async at The Park Avenue Armory di Stephen Nomura Schible è dunque una specie di capture di questo evento, che appare quasi un’esperienza spirituale. E non è un caso che Porto/Post/Doc lo abbia programmato nella sezione “Trasmission”, che fa crossover tra cinema e musica. La macchina da prese segue con attenzione ogni singolo gesto di Sakamoto, che si muove quasi come un sacerdote, con un’eleganza e una concentrazione che da sole farebbero storia a sé.
Il pubblico ascolta con attenzione, in silenzio. E anche gli spettatori cinematografici che partecipano a questo evento in differita, mediato da uno schermo, non possono non sentirsi totalmente coinvolti, come se fossero seduti nella medesima sala. Di solito le capture di pièce teatrali, performance, concerti hanno l’interesse di pura testimonianza, senza grandi volontà artistiche.
Dunque, si osserva lo spettacolo “da fuori”, e nonostante quest’ultimo possa anche essere straordinario, ci si sente sempre “esterni”, freddi, non coinvolti. Al contrario, di fronte all’esecuzione di async, a quella esecuzione in particolare, così intima, così ispirata, risulta difficile estraniarsi.
Non dovrebbe essere necessario, per giudicare un’opera, conoscere le vicissitudini dell’autore o del protagonista. E non si tratta nemmeno di essere condizionati, nel giudizio, dall’aver appreso i problemi di salute di Sakamoto, provando per lui compassione, tenerezza o semplice empatia.
Nel caso di Ryūichi Sakamoto: async at The Park Avenue Armory si è di fronte a un’esecuzione talmente potente, compiuta in maniera così intensa, da non essere più la vicenda personale a svelare qualcosa dell’opera ma, al contrario, il suo compimento a essere un’evidenza della persona che la mette in atto.
Ogni singolo movimento, ogni dettaglio è così denso di significato da non poter permettere di pensare la musica come cosa astratta, ma come realtà concreta, artigianale, “costruita”, dotata di un corpo, un respiro.
E l’importanza della gestualità dell’esecuzione non è casuale. async stesso è un concept album che, per ammissione dello stesso compositore, è stato pensato come “una colonna sonora per un film di Andrei Tarkovsky che non esiste”, traendo ispirazione “da oggetti di uso quotidiano, dalla scultura e dalla natura”. Il corpus dell’opera “gioca con l’idea di asincronismo, i numeri primi, il caos, la fisica quantistica, le linee sfuocate della vita, di artificialità / rumore e della musica", incorporando elementi dai “musei di tutto il mondo” e “una profonda selezione di suoni unici, acustici e elettrici, programmati e organici”.
I gesti di Sakamoto sono perfetti, calibrati precisi e estremamente semplici, come se riflettere su ciò che regola la vita e la morte, l’universo, non potesse che generare un movimento tanto più elementare quanto più essenziale. Ma ogni gesto, ogni respiro, ogni esecuzione saranno diversi. Quello a cui abbiamo assistito è un unicum, come dovrebbe esserlo ogni singolo istante della nostra vita, anche se non siamo soliti pensarlo, poiché troppo superbi o troppo distratti. In questo senso, Ryūichi Sakamoto: async at The Park Avenue Armory, diventa un monito. “Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia? Un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite” (Paul Bowles in The Sheltering Sky – Il tè nel deserto, 1990, di Bernardo Bertolucci).