Porto/Post/Doc si conferma ancora una volta un ottimo Festival, con alla base una vera idea di programmazione. Non è raro vedere manifestazioni cinematografiche, anche con grandi investimenti economici, aver tutto fuorché un’idea. Un Festival non dovrebbe essere un’accozzaglia del meglio (e talvolta del meno peggio) offerto dal mercato, ma un percorso, o meglio un “discorso” attorno al cinema, all’epoca storica, al nascere di nuovi talenti. Alla cinefilia, alla ricerca, si associano scelte più popolari benché qualitativamente elevate.
Attraversando le diverse sezioni di Porto / Post / Doc non è difficile imbattersi in veri e propri gioielli. Dalla splendida e dovuta retrospettiva dedicata a António Reis e Margarida Cordeiro, i cui film sono purtroppo ancora poco noti ai più e mostrati con difficoltà, alla sezione “Trasmission” che funge da crossover tra cinema e musica, passaggio serale tra le proiezioni della giornata e i ritrovi notturni. Nella selezione “Cinema Falado” oltre al già trattato Deux, trois fois Branco di Boris Nicot troviamo il primo, bellissimo, lungometraggio della giovane Leonor Teles, Terra Franca, già Orso d’Oro alla Berlinale col cortometraggio Balada de um Batráquio nel 2016. La macchina da presa di Leonor Teles segue, in Terra Franca, con grande affetto e attenzione, lo scorrere delle giornate di Albertino Lobo, pescatore del fiume Tejo, più a suo agio sulla sua barca, nell’acqua, la sua “zona franca”, che a casa, nel pieno dei preparativi per il matrimonio della figlia maggiore, o a fronteggiare problemi burocratici e finanziari.
E passando di sezione in sezione, dai focus dedicati a Matías Piñeiro e Chris Petit, al workshop di Laura Mulvey fino al “Concorso Cinema Novo”, alle “Sessioni Speciali” e alla programmazione per le scuole, arriviamo al “Concorso Internazionale” che oltre a programmare l’assai amato Sobre tudo, sobre nada di Dídio Pestana, già apprezzato a Locarno e al Festival di Siviglia, ha tra i suoi titoli un film totalmente folle e originale, che si è aggiudicato, giustamente, la competizione, Kamagasaki Cauldron War (Tsukiyonokamagassen) di Leo Sato. Nomen omen, un vero e proprio “calderone” a tratti delirante, anticonformista, divertente ai limiti della farsa, ma con momenti di assoluta grazia, addirittura commoventi – su tutti il momento in cui un vecchio appartenente alla yakuza danza sui tetti di uno dei palazzi occupati di fronte allo sguardo di un ladruncolo di periferia e di un bambinetto sveglio e veloce. Mentre l’uomo si spoglia, mostra la schiena tatuata e inizia a muoversi, la ragazza che è con loro, bellissima e coraggiosa prostituta, inizia a sua volta a ballare in maniera talmente leggiadra che quei pochi minuti varrebbero da soli l’intero film.
La storia è presto detta. Spaccato della società giapponese, indagata con ironia e intelligenza nei sobborghi di Osaka, in uno dei quartieri più poveri della città, abitato perlopiù da ladri, prostitute e esponenti della mafia locale, dove le vicissitudini conseguenti a un furto si intrecciano alle rivolte di un gruppo di oppressi. Satirico e spiazzante, girato in un evocativo 16 mm, strizzando l’occhio alla tradizione culturale giapponese – teatro nô incluso – Kamagasaki Cauldron War risulta incatalogabile e anarcoide, un inno alla rivolta e alla ribellione, una dichiarazione d’amore alla libertà più totale – nella forma e nel contenuto. In un certo senso il film di Leo Sato potrebbe essere considerato una specie di manifesto per un Festival che si muove in maniera totalmente indipendente e anticonvenzionale, mantenendo un livello notevolmente alto e permettendosi di mescolare, come in un calderone appunto, ma nel senso migliore del termine, cinematografie e stili diversissimi, grazie ai quali definire un’identità, la propria, assai precisa e riconoscibile.