Sol Negro di Maureen Fazendeiro e Lonely Rivers di Mauro Herce

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Spesso nei grandi festival (grandi per budget) i cortometraggi non ottengono l’attenzione che meriterebbero, vengono lasciati purtroppo da parte dei film sorprendenti, piccoli solo nella durata, ma straordinariamente originali e interessanti. Tra le cose migliori viste quest’anno ci sono proprio due cortometraggi, Sol Negro di Maureen Fazendeiro e Lonely Rivers di Mauro Herce.

Sol Negro ha avuto la prima mondiale a Curtas Vila do Conde, per poi proseguire il suo cammino, solo per citarne alcuni, a Toronto, Vienna, DocLisboa, Mar del Plata, Gijón e Porto/Post/Doc, che ancora una volta conferma l’ottima qualità della sua selezione.

Girato a Lisbona, durante l’eclisse di sole del 2015, il film si basa su un testo di Henri Michaux interpretato dalla immensa Delphine Seyrig. Ma Sol Negro è molto più di questo. Come accade nel cinema di Maureen Fazendeiro – basti ricordare il magnifico Motu Maeva – ciò che viene a crearsi nella pellicola, nel suo farsi, è un corto-circuito inesplicabile. C’è qualcosa nel suo modo di stare dietro la macchina da presa, di raccogliere le immagini e di evocare altro, che oltrepassa qualsiasi tipo di discorso possibile attorno al film. Le parole non bastano. Ciò che arriva allo spettatore è un sentire e un’emozione che parte da lontano, da qualcosa che conosciamo dalla nostra infanzia, che è dolce e forse malinconico, a ogni modo vivo e cangiante. Estremamente personale. Vedendo Sol Negro, con le immagini in bianco e nero di gente con le lenti affumicate davanti agli occhi per non farseli accecare dalla luce, non può non venire in mente La Jetée di Chris Marker, capolavoro che gioca appunto con la memoria, col ricordo – bellissima l’immagine di un tecnico del suono, seduto coi suoi strumenti per la presa diretta, intento a ammirare l’eclisse, come a ricordare che, il cinema si compone di parti differenti che, combinate in un secondo momento, al montaggio, permettono di ottenere un’opera nuova, totalmente differente dalle parti che la compongono, mostrando in una sola immagine, netta e precisa, cosa sia il cinema e soprattutto cosa significhi avere un’idea del cinema.

E poi c’è la voce, magnifica, di Delphine Seyrig, il poema Je vous écris d'un pays lointain di Henri Michaux, misterioso, intenso. E tutto si tiene, magicamente. Ci sono ricordi d’infanzia legati all’esperienza dell’eclisse, l’eccitazione di un’esperienza non comune, l’affumicare le lenti, come fosse un gioco, metterle davanti agli occhi, e assistere a uno spettacolo che, se compreso, è talmente più grande e potente di tutte le piccole cose attorno, da far tremare i polsi. E al tempo stesso sono le piccole cose attorno a noi che occupano il nostro tempo. E tutto ciò è assolutamente coerente col testo di Michaux.

“On ne voit rien, que ce qu'il importe si peu de voir.
Rien, et cependant on tremble.
Pourquoi?”

E qui subentra l’angoscia, l’essere ciechi di fronte alla luce e nonostante le lenti affumicate. Non vedere niente, ma cosa è così importante da essere visto? Eppure, tremiamo di paura. E il cortocircuito è completo, quasi magicamente si definisce, e il film si chiude con una grazia indicibile.


L’esperienza dell’angoscia è sempre un’esperienza solitaria e il senso di solitudine profonda, abissale, è ciò a cui gira attorno il bellissimo film di Mauro Herce, Lonely Rivers. Presentato al Festival di Locarno, ha poi viaggiato in differenti festival, tra cui DocLisboa, Mar del Plata, Gijón e Torino, il film di Mauro Herce – anche impressionante direttore della fotografia per Oliver Laxe e Eloy Enciso – potrebbe sembrare una prosecuzione del precedente (e sublime) Dead Slow Ahead.

Elvis Presley che a fine carriera canta Unchained Melody, gonfio d’alcool e di farmaci ma in una maniera straziante diventa il leitmotiv del film. Non solo perché questa canzone, che viene cantata a squarciagola dai marinai del cargo già protagonista di Dead Slow Ahead, diventa un modo per esorcizzare nel rituale del karaoke più o meno sbronzo, la loro solitudine, ma perché in entrambe le versioni – Elvis e il karaoke – l’interpretazione è carica di disperazione.

Non c’è talento, fortuna, compagnia che possa attenuare il senso di solitudine e disperazione profonda che può toccare la vita di ognuno. Allora si cercano maniere diverse per metterla a tacere o anestetizzarla, almeno per qualche istante. Non importa se questo sia un gesto condiviso, una sostanza, una risata disgraziata o altro. Ciò che è straordinario in questo film è la sensibilità estrema del regista nel rispettare chi ha davanti e condividerne la pena, rendendola sublime e salvandola, almeno attraverso il cinema, dall’abisso.

Il gruppo di uomini totalmente isolati in mare, passa il tempo libero fumando sigarette, bevendo birra e cantando canzoni d’amore, pop, magari banali, ma che, come diceva una devastata Fanny Ardant a Gerard Depardieu in La signora della porta accanto: «Ascolto solo canzoni. Perché dicono la verità. Più sono stupide e più sono vere. E poi non sono stupide. Che dicono? Dicono “Non devi lasciarmi”, “Senza di te in me non c'è vita”, “Senza di te io sono una casa vuota”, o “Lascia che io divenga l'ombra della tua ombra”, oppure “Senza amore non siamo niente”». Per cui si passa dai Maroon 5 ai Firehouse fino a Julio Iglesias, magari pensando a famiglie lontane, a donne lasciate e poco visitate, a vite altrove, o a esistenze possibili, più comuni ma più dolci e meno spietate. E i loro visi, deformati dal riso isterico e dall’alcool, ma soprattutto da un malcelato sconforto, sono tra le cose probabilmente più toccanti, sincere e devastanti viste negli ultimi tempi. Soprattutto perché senza via di scampo. Ma come insegna bene Abel Ferrara «Nessuno può salvare nessuno. [...] Perché nessuno vuole essere salvato». O forse semplicemente non può.