Mentre monta Jurassic Park, Spielberg in Polonia gira il suo film più impegnativo (del quale inizialmente avrebbe dovuto essere solo produttore), sceneggiato da Steven Zallian dal romanzo omonimo di Thomas Keneally. Si impunta per girare in bianco e nero, con largo uso di macchina a mano, senza effetti spettacolari. A colori, oltre alla bambina con il cappottino rosso, solo la candela dello Shabbath iniziale e l’ultima scena contemporanea degli ebrei di Schindler (e dei loro interpreti) che depongono pietre sulla sua tomba a Gerusalemme. Scelte morali, per rappresentare la tragedia di un secolo; scelte espressive, per non consentire fughe nel sogno. La Catastrofe che si fa Storia, e due uomini comuni che tentano di aggirarla: lo Schindler piacione e fatuo che, guardandosi intorno, piano piano matura e il contabile Stern, che mette in fila i nomi invece delle cifre. Grandi Liam Neeson e Ben Kingsley, mentre Ralph Fiennes, quasi esordiente, ha negli occhi la fredda follia nazista. Inizia qui la collaborazione con il direttore della fotografia Janusz Kaminski.
6 giugno 1944: D-Day, il giorno dello sbarco in Normandia delle truppe alleate. Il capitano Miller guida i suoi Ranger nell’assalto anfibio a Omaha Beach, sotto il fuoco dei tedeschi. Non fosse altro che per la prima mezz’ora, sanguinosa, frenetica, brutale, camera a mano che si avventa su sangue, arti, bombe, caos, rumore assordante o silenzio improvviso, questo sarebbe un grande film contro la guerra, contro tutte le carneficine (comprese quelle dei nobili animali massacrati come combattenti o portatori di pesi indicibili in War Horse, 2011, film quasi gemello sulla Prima guerra mondiale, ma meno efficace). Poi, contate le vittime, parte la missione, in territorio occupato e devastato: ritmo pacato, echi fordiani, forse anche kubrickiani (Orizzonti di gloria), rapporto edipico tra ufficiale e recluta, Tom Hanks e Matt Damon. Apertura e chiusura sulla falsariga di Schindler’s List.
Dal racconto di Brian Aldiss, un progetto che stava a cuore a Kubrick, riscritto dallo stesso Spielberg, spesso sottovalutato, forse per rimpianto kubrickiano. Ma la storia di David che «ha undici anni, pesa 27 chili, è alto 1 metro e 21, ha i capelli castani. Il suo amore è reale, ma lui non lo è» pare fatta apposta per il creatore di E. T.: non un mostriciattolo alieno che intenerisce, ma un Mecha, un ragazzino artificiale capace di sentire e amare, abbandonato dalla mamma umana quando arriva un bambino vero. Nel 2125, sulla Terra semisommersa a causa dell’effetto serra, i soli a provare sentimenti paiono proprio loro, i robot uguali a noi, che vengono ciclicamente distrutti nella macabra, sanguinosa Fiera della carne. Tristissima nella prima parte, quasi orrifica nella seconda (la più bella e terribile), romantica (e collodiana) nella terza, una favola politica (e molto attuale), dove la pace può arrivare solo dagli alieni.