Ancora Storia, ancora trucchi spionistici e tentazione di compromessi, ancora Tom Hanks, questa volta nella parte del brillante avvocato che in piena Guerra fredda fu incaricato della difesa della spia sovietica Rudolf Abel, che viveva sotto falsa identità a Brooklyn Heights, lo salvò dalla pena capitale e nel 1962 fu incaricato di andarlo a scambiare, a Berlino, con l’aviatore americano Gary Powers. Si apre con un inseguimento newyorkese di stampo hitchcockiano, prosegue con il lungo faccia a faccia, e la progressiva, reciproca confidenza, tra Hanks e Mark Rylance (la spia), e vira verso un ansiogeno grigiore berlinese lecarreiano nel finale: un processo e, soprattutto, una trattativa giocati come una partita a poker, dove l’avvocato idealista scommette sull’etica. Struttura e andamento classicissimi, puliti, essenziali, per dimostrare come potremmo essere umani. Sceneggiatura di Matt Charman e dei fratelli Coen.
I Pentagon Papers sono un mastodontico documento (7.000 pagine) sugli sviluppi della guerra del Vietnam, tenuto segreto dal governo attraverso quattro successive presidenze (Kennedy compreso). Filtrati nel 1971 al «New York Times», che inizia la pubblicazione ma viene accusato di oltraggio da Nixon, vengono acquisiti e pubblicati anche dal «Washington Post,» che diventa così un quotidiano di livello nazionale. Tipica storia americana sulla libertà e l’indispensabilità della stampa, realizzata da Spielberg con tutta la grinta e l’ardore democratico del cinema anni 70, del quale riproduce l’urgenza e il respiro (fino alla citazione letterale, nel finale, dell’inizio di Tutti gli uomini del presidente di Pakula, sullo scandalo Watergate, innescato proprio dal «Post»). Storia di un bravissimo, arruffato direttore (Tom Hanks) e soprattutto di Katharine Graham, la donna che aveva ereditato la proprietà del giornale e che decise, contro ogni aspettativa, di proseguire la pubblicazione nonostante lo scandalo: Meryl Streep, che trasforma la fragilità in sicurezza.
Ancora un back to back, un sontuoso, irresistibile e instancabile giocattolone (letteralmente) realizzato in contemporanea con The Post, dal romanzo di Ernest Cline. La Terra nel 2045 fa orrore, è una cloaca invivibile e tutti, appena possono, si rifugiano in OASIS, universo virtuale nel quale possono fare di tutto. Il cui fondatore, alla propria morte, bandisce un concorso: chi troverà le tre chiavi per sbloccare un easter egg diventerà padrone di OASIS. La gara è un tuffo in tutto l’immaginario possibile. Da Hitchcock a Shining, dalla DeLorean a Freddy Krueger, da Harryhausen a Byron Haskin, dal cubo di Rubik a Rosebud, King Kong, ecc. ecc. Spielberg (che ha ridotto al minimo le citazioni personali, il T-Rex) deve essersi divertito molto nel girarlo, come si divertono gli spettatori (non solo cinefili, ci sono anche rock band, fumetti, giochi elettronici, serie tv).
Non è il remake del film di Wise e Robbins, ma l’adattamento del musical di Bernstein, Sondheim e Laurents. Anche se Spielberg rende omaggio al film del 1961 (in alcune scene, nei titoli di coda e soprattutto dando a Rita Moreno la parte di Valentina – un uomo nel film di Wise – e offrendole la canzone più malinconica, Somewhere), ne reinventa completamente la struttura visiva: non c’è più palcoscenico, terrazza, palestra, strada, con al centro il corpo di ballo, ma c’è un intero universo urbano percorso, spezzato, frantumato, vitalizzato dal gioco instancabile della macchina da presa e del montaggio. Tutto danza, nel film, all’aperto, a Harlem e Brooklyn, come al chiuso, nella sfida di ballo: Jets e Sharks, spumeggianti gonne ispaniche e bambini (nella geniale messa in scena di America), panni stesi, coltelli, ombre (quelle riprese dall’alto, che si allungano e si fronteggiano nello scontro mortale). Un grandissimo musical ambientato negli anni 50 che ci parla di oggi, di razze, rivalità, interdizioni sempre più attuali. D’altronde, è dal 1596 che poeti, musicisti e registi ci invitano alla tolleranza e al rispetto.