Sergei Loznitsa entra nel campo di concentramento di Sachsenhausen – a Orianenburg, 35 chilometri a nord di Berlino – in una calda giornata estiva. Tutto quello che fa è piazzare la macchina ad altezza uomo e lasciarla lì, dritta e frontale, a riprendere i gruppi di turisti che passeggiano per il campo.
Il risultato è una serie di piani sequenza in campo fisso, fotografati in bianco e nero, che montati l’uno dopo l’altro formano un percorso (dall’entrata all’uscita) che è quello del giro turistico prestabilito e indicato da cartelli, guide e audioguide, ma è anche il percorso cui – giorno dopo giorno, sapendo di poter morire da un momento all’altro – erano costretti i prigionieri durante la detenzione. L’impressionante spettacolo va ben oltre il giudizio – facile e scontato – di condanna e di ribrezzo nei confronti delle persone che visitano un luogo di morte, dolore e sofferenza con la leggerezza con cui si visitano una pinacoteca o un sito archeologico. Il disprezzo per il turista che si fa i selfie nei crematori e nelle camere a gas, che si mette in posa per la foto sul palo delle esecuzioni o che passeggia allegro fra i viali delimitati da dormitori, baracche e celle di detenzione e mangia il pranzo al sacco seduto sul lastricato che separa la strada dalle fosse comuni, anche se è la prima e naturale reazione di ogni spettatore, non deve trarre in inganno né condurre a semplicistiche e banali conclusioni su quello che il film dice e mostra.
Siamo proprio sicuri che ci comporteremmo tanto diversamente se fossimo al loro posto? Probabilmente no, o magari sì, o forse semplicemente sceglieremmo di non metterci nemmeno piede, lì dentro, in un campo di concentramento. In fondo non è questo il problema. Io – perché, sì, un film come questo chiama in causa ciascuno di noi e porta a usare la prima persona singolare – io che in un campo di concentramento non ci sono mai stato e forse non c’andrò mai, mi sono domandato cosa farei se mi trovassi al posto delle persone mostrate nel film. E non ho saputo darmi una risposta.
Perché in realtà ciò su cui il film intende ragionare è il senso della testimonianza e della memoria dell’orrore, nel momento in cui la possibilità di raccontarlo, questo orrore, diviene un problema morale.
Se le parole di Adorno sull’impossibilità di fare arte dopo la Shoah sono ancora attuali, e il bisogno di produrre testimonianza posto da Celan o Primo Levi è pur sempre vero, un concetto tanto eterogeneo e sfumato come quello del turismo, quando entra in contatto con un luogo tanto inconcepibile, sfugge a ogni teoria sull’etica e sull’estetica della memoria avanzate nel Novecento.
Loznitsa dimostra (e ammette nel pressbook del film) di non saper dare un giudizio su ciò che riprende, né di aver compreso esattamente di cosa si tratti. Per questo utilizza come strumento di avvicinamento e interpretazione il libro – da cui il film prende il nome – di Sebald.
Il film, analogamente, usa il filtro dell’architettura per comporre l’immaginario dell’orrore e del dolore con il quale viene a contatto. Gli edifici, che secondo Sebald conservano memoria e connotano visivamente e in maniera emozionale e concettuale un luogo, diventano allo stesso tempo strumenti di evocazione della memoria. Pongono in relazione un luogo con la storia che gli appartiene, e attraverso esso gli individui che vi entrano in contatto. Se il rapporto fra individuo e collettività nel romanzo è uno dei temi fondamentali, nel film l’attenzione maggiore sembra posta sul concetto di massificazione (mercificazione) dell’esperienza del dolore e del trauma.
Come nel precedente The Event (presentato alla Mostra dello scorso anno), in Austerlitz Loznitsa rinuncia a descrivere le cose in maniera precisa ed esaustiva e lascia che siano gli elementi in campo a determinare il racconto. Se là questo compito toccava ai volti e le facce dei protagonisti inconsapevoli della caduta del regime sovietico, qui sono proprio i luoghi, e per questo ogni inquadratura, ogni campo lungo e fisso a caricarsi di un valore testimoniale ricchissimo di metafore.
Ogni inquadratura costruisce e determina uno spazio, ogni prospettiva si fa dialettica e si dimostra capace di produrre senso (all’interno del totale non-senso). Il posizionamento a distanza, la frontalità e la presenza di una macchina che sta nascosta alla vista di chi le è di fronte (sono poche le volte nelle quali registriamo un sguardo in camera o in cui qualcuno dimostra di avvertire la presenza dell’operatore) ricordano le vedute dei fratelli Lumiére – il finale con l’uscita dei visitatori dal cancello del campo che reca la scritta “Arbeit Macht Frei” rievoca La Sortie de l'usine Lumière.
Ed è proprio sullo stile essenziale dei due inventori del cinema che è modulata l’intera operazione di Austerlitz. Non scegliendo un punto di vista e non volendo aderire a una prospettiva “interna”, Loznitsa, sapendo benissimo di non poter arrivare a produrre uno sguardo autentico, trova il modo di essere neutrale e di estromettere dal testo qualsiasi possibile caduta voyeuristica. In questo modo, i protagonisti del film, i turisti dell’orrore, non sono più elementi difformi e incongrui al contesto che li circonda, ma da soggetti che osservano diventano oggetti di uno sguardo. Omogeneizzandosi, di fatto, al luogo che li ingloba e caricando di un senso nuovo, diverso e ancora più atroce, il significato di memoria. Ormai del tutto sovrapponibile a quello di souvenir.