Michel Gondry, con Is the Man Who Is Tall Happy?, aggiunge un nuovo frammento che ridisegna quell’iridescente caleidoscopio che è la sua opera.
Quest’ultimo tassello, come i precedenti, e di conseguenza quanto il tutto di cui fa parte, non si lascia risolutivamente incasellare in qualche etichetta di genere; nella stessa maniera del suo autore, che non può essere confinato unicamente negli spazi rigidi della sala cinematografica (Gondry, tra i molti progetti, rimane, ad esempio, termine di riferimento per il circuito video musicale: l’ultimo lavoro finora realizzato è Love Letters per i Metronomy).
Anche questa animated conversation with Noam Chomsky (prosecuzione del titolo che anticipa illustrando in sintesi quello a cui si assisterà), nel modo delle altre visionarie visioni venute prima, si mostra come messa in mostra di se stessa, parla del proprio linguaggio e della propria essenza, svela i suoi trucchi riuscendo allo stesso tempo ad aumentarne la fascinazione.
Che poi è quanto compie Chomsky con gli studi sulla grammatica universale strutturatisi nella teoria della grammatica generativa. Lui, figlio di quella cultura ebraica abituata a vedere la realtà come un costrutto semantico (il padre fu studioso di ebraismo e linguaggio ebraico) e per la quale, dunque, indagare la parola e suoi funzionamenti vuol dire scrutare il senso del mondo, con le sue ricerche ha fatto della linguistica un terreno di speculazione filosofica.
Per quello che Chomsky rappresenta, non soltanto nell’ambito disciplinare di sua stretta competenza (è dichiarato il suo anarchismo politico che ne ha fatto un’icona del liberal-radicalismo anticapitalista), secondo Gondry è l’intellettuale occidentale più influente con cui potersi confrontare. Dunque, eccolo farsi coraggio, riprendere in mano la sua vecchia cinepresa Bolex 16 mm e andare a intervistarlo.
Ma delle immagini della conversazione restano soltanto pochi attimi, perché il regista preferisce elaborare un corrispettivo grafico, disegnato su fogli di acetato, delle teorie esposte dal linguista-filosofo. Un’operazione autoriflessiva e teorica che riporta a mente quanto elaborato da Ėjzenštejn al riguardo del montaggio.
Riadattando quanto scritto dal regista sovietico nel ’38 possiamo quindi sostenere che Gondry «in conformità con la propria individualità, a modo suo, a seconda della propria esperienza, del tipo di fantasia, della trama di associazioni […], crea l’immagine partendo proprio da quelle rappresentazioni-guida suggeritegli» da Chomsky. Un’operazione peraltro attenta al pensiero del linguista per il quale «è importante ricordare che il linguaggio umano non è necessariamente verbale».
In Is the Man Who Is Tall Happy? il tema si identifica con la forma. Si è spettatori di una sorta di partenogenesi del visibile: in alcuni momenti l’immagine diventa (di)segno senza rapporto referenziale diretto, non rimanda più ad un altro-da-sé a cui riferirsi. L’animazione riprende e sviluppa quel grafismo primitivista fluorescente già visto in Crystalline di Björk.
I punti deboli di questo lavoro di Gondry sono il sovraccarico segnico, che si traduce in un vero e proprio bombardamento oculare senza sosta, dettato dall’ansia del regista di tradurre graficamente quanto più possibile delle parole di Chomsky; e un certo didascalismo nelle rappresentazioni, diretta conseguenza di quanto appena evidenziato.
Sarebbe stato opportuno forse un maggior lavoro di sintesi, oppure un’immagine pensata in termini di rapporto dialettico con il bagaglio di teorie linguistiche. Gondry per rendere più affascinante e dinamico il pensiero di Chomsky avrebbe dovuto utilizzare l’aspetto didattico in una costruzione drammatica, un po’ come fece Resnais in Mon oncle d’Amerique dove non sono i personaggi a raccontare o illustrare una vicenda scientifica, ma è la scienza a fornire le chiavi per decifrare una vicenda cinematografica.
Come disse a proposito lo stesso Henri Laborit, di cui sono riprese le teorie: «Le mie idee non sono presenti per spiegare i comportamenti dei personaggi, ma servono a decodificarli».