Il fantasma della contessa ungherese Erzsébet Báthory (1560-1614) scompare e riappare a intermittenza nel cinema.
All'inizio degli anni '70 uscirono improvvisamente alcuni film ispirati alla sua leggenda. Poi il silenzio (o film scadenti). Ora - ossia nell'ultimo lustro - il fenomeno si sta ripetendo.
Accusata di avere seviziato e ucciso decine (o addirittura centinaia) di ragazze - secondo la vulgata popolare per dissanguarle e immergersi nel loro sangue come bagno di eterna giovinezza - la contessa Báthory ha personificato per secoli una terrificante mitologia di perversione e crudeltà. Ma è stata rivalutata da recenti teorie di alcuni storici ungheresi secondo cui fu soprattutto la vittima designata di una congiura ordita da altri aristocratici, in complicità con il re (che le doveva ingenti somme) e con gli stessi parenti della donna, avidi delle sue ricchezze e proprietà.
A questa teoria si ispira l'ultimo film visionario del maestro ceco Juraj Jakubisko, Bathory (2008), purtroppo ancora inedito in Italia, che la ritrae come la tragica eroina di un rutilante affresco di straordinaria bellezza figurativa.
Nei secoli andati la fama "nera" della contessa era così potente che probabilmente ispirò lo stesso Bram Stoker, forse suggestionato dalla sua solitudine di castellana maledetta, così come appariva nel libro The Book of Were-Wolves (1865) del pastore Sabine Baring-Gould, tanto da ricordarsene nella stesura delle pagine di Dracula. Le due storie non si sfiorarono solo nella finzione, dato che è accertato come le casate dei Báthory e quella di Vlad Tepes Dracul avessero stretto un'alleanza bellica meno di un secolo prima della nascita di Erzsébet.
Il cinema la scoprì solo all'inizio degli anni '70 ma in poco tempo ne moltiplicò le apparizioni: fu un'incarnazione del Male nel caleidoscopio underground di Necropolis (1970) di Franco Brocani, quindi assunse il fascino suadente di Delphine Seyrig, vampira saffica fasciata di lamé nel sensuale e fascinoso La vestale di Satana (Les Lèvres rouge, 1971) del belga Harry Kümel, ambientato nell'Ostenda contemporanea.
Nello stesso anno, la sua leggenda fu sfruttata dalla Hammer nell'horror La morte va a braccetto con le vergini (Countess Dracula, 1971) di Peter Sasdy, mentre nell'anomalo e interessante Le vergini cavalcano la morte (Ceremonia sangrienta, 1973), lo spagnolo Jorge Grau fece rinverdire a Lucia Bosé le gesta assassine della sua antenata Báthory, e in Un caldo corpo di femmina (La Comtesse noire / Les Avaleuses, 1973), Jesús Franco (nascosto sotto lo pseudonimo di J.P. Johnson) si ispirò vagamente alla contessa per un film erotico e onirico di cui è arduo trovare una versione non spuria.
Sempre nel registro erotico, fu poi il maestro Walerian Borowczyk a renderla emblema di perversione, eros saffico e crudeltà nel terzo episodio di I racconti immorali di Borowckzyk (Contes immoraux, 1974).
Se è probabile che il successo della contessa nei primi anni '70 fosse legato alle vampate trasgressive del periodo, oggi il suo ritorno si inquadra, in parte, appunto, nell'esigenza di riscattarla come donna dalla forte personalità e in anticipo sui tempi, stritolata dal potere maschile e, dall'altra, come figura lunare e ai limiti dell'irrazionale.
È questa una delle chiavi scelte da Julie Delpy, che in concomitanza con l'uscita del film di Jakubisko ha scritto, diretto, interpretato e addirittura musicato (in collaborazione con Mark Streitenfeld) la coproduzione franco-tedesca La contessa (La Comtesse, 2009, trasmesso in versione doppiata da Raimovie il 1 dicembre 2013), progetto coltivato per ben sette anni, dove l'attrice-regista muta radicalmente registro rispetto alla divertente commedia precedente (2 giorni a Parigi, 2007).
A differenza di Jakubisko, che non lascia dubbi sull'innocenza dell'eroina, la Delpy la ritrae come una figura violentemente contraddittoria, appassionata e assassina, un personaggio la cui ferocia scaturisce dalle ferite della propria fragilità, dalla sessualità ambivalente (ha una relazione con la consigliera-strega Anna Darvulia, realmente esistita, interpretata dalla bravissima Anamaria Marinca di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Mungiu), dai sentimenti ulcerati dalla passione infelice e interrotta per un uomo che ha diciannove anni meno di lei, István Thurzó, figlio di quello che diventerà il suo persecutore e carnefice, György Thurzó (William Hurt), palatino d'Ungheria.
Se condivide con il regista slovacco la teoria del complotto contro Erzsébet Báthory, l'attrice-regista non nega ma preferisce avvolgere in una coltre di ambiguità le sue presunte efferatezze, rendendo credibili e imprevedibili i passaggi dalla dolcezza alla crudeltà, mentre il motivo dominante e ossessivo diviene il terrore della decadenza fisica della protagonista, una corrente nera e sorda nutrita dalla sua disperazione amorosa e dagli spettri di una paranoia parossistica.
La bellezza del viso diafano della protagonista (che dopo i film di Godard, Tavernier, Kieslowski e Jarmush si conferma un'eccellente interprete) rende ancora più allucinante l'incubo della contessa - la degradazione corporale e addirittura la putrefazione - che allude a fobie contemporanee e ispira anche l'iconografia della seconda parte del film, dove il mélo si trasforma in gotico ai limiti del fantastico (ma limitando, per fortuna, la componente grandguignolesca) e la bellissima fotografia di Martin Ruhe è dominata da tonalità blu negli interni e marroni negli esterni, proprio come se la realtà stessa stesse diventando un corpo in disfacimento.
La contessa (La Comtesse, Francia-Germania, 2009) di Julie Delpy, trasmesso da Raimovie.