Quando ho cominciato a cercare registi che avessero diretto film una volta passati gli ottanta non pensavo che mi sarei ritrovato in un guaio del genere. Tutto nasce da Eastwood, ancora attivo a 94 anni. Quanti altri ce ne saranno mai? - mi sono chiesto. Al momento il mio elenco comprende un'ottantina scarsa di nomi. (Si sono aggiunti anche Mike Leigh e Werner Herzog.) E per fortuna che i film di Lester James Peries non circolano (ne ha fatti tre da ottuagenario). E per fortuna che Postcard di Kaneto Shindo non l'ho mai visto (aveva cento anni quando l'ha diretto). E per fortuna che Avati non lo sopporto. E quindi almeno questi posso tranquillamente escluderli.
Il che porta inevitabilmente a due conclusioni. La prima è che il cinema non è un lavoro per giovani. O che comunque il lavoro del regista non è particolarmente usurante. La seconda è che mi toccherà fare una parte tre. Non c'è rimedio.
1) Akira Kurosawa (23 marzo 1910) – Madadayo – Il compleanno (1993). In Giappone i bambini quando giocano a nascondino gridano “Maadha kai” (“Sei pronto?”). Quello che deve nascondersi risponde, almeno per un po', “Madadayo” (“Non ancora”). E lo stesso scambio avviene tra il vecchio professor Uchida e i suoi studenti. Kurosawa gioca a nascondino con la morte. Come il bambino del finale.
2) Jonas Mekas (24 dicembre 1922) – Out-takes from the Life of a Happy Man (2012). All'approssimarsi del suo novantesimo compleanno Mekas si chiude nel suo studio e si mette pazientemente a incollare alcune sequenze dei suoi vecchi film cadute sul pavimento della sala di montaggio. E il film è tutto qui. È quello che dice il titolo: riprese scartate dalla vita di un uomo felice.
3) Michelangelo Antonioni (29 settembre 1912) – Al di là delle nuvole (1995). Ci sono silenzi meravigliosi in questo film. Interrotti disgraziatamente da dialoghi che non li salta nemmeno un cavallo. Un vecchio vizio di Antonioni (complice Tonino Guerra). Visivamente, invece, è sontuoso. Un altro vecchio vizio di Antonioni è quello di dare lo stop alla camera nei momenti sbagliati. O comunque meno canonici. Troppo presto o troppo tardi. Restano in testa momenti folgoranti: la ragazza che si vuole gettare sotto a un treno, Moreau che ride di Mastroianni e subito dopo anche di Malkovich, la camera che si concentra sulle teste di Marceau e Malkovich mentre questi si rotolano sul letto, il rientro su per le scale di Jacob, il piano sequenza finale. In ogni caso più nebbia e pioggia che nuvole. Un titolo più giusto sarebbe stato, parafrasando Mekas, Sequenze scartate dalla carriera di un regista perplesso.
4) Éric Rohmer (21 marzo 1920) – Les amours d'Astrée et de Céladon (2007). È esattamente il tipo di film che non sopporto: ninfe, druidi, pastorelle indifese, giovani senza macchia e senza paura, per giunta poeti. A un certo punto si mettono pure a cantare. Allora com'è che questo film m'è sembrato straordinariamente incantevole? Sarà un qualche sortilegio, una brujería, un incantamento. Tutte cose nelle quali Rohmer era uno specialista.
5) Robert Altman (20 febbraio 1925) – Radio America (2006). Non è esattamente Nashville. L'unità di luogo e azione tarpa un po' le ali all'estro di Altman. E comunque l'azione è corale, la camera scivola tra gli attori con discreta indiscrezione e si canta a non finire. Tomlin e Streep sono insuperabili. Kline si ritaglia il ruolo di comic relief. Ma la battuta migliore ce l'ha Woody Harrelson quando dice: “Ho un cavallo molto intelligente. Gli ho insegnato la fisica, la matematica... ma non riesco a fargli capire la filosofia. Because you can't put Descartes before the horse”.
6) Woody Allen (1 dicembre 1935) – Café Society (2016). Woody Allen venderebbe anche l'anima al diavolo pur di girare un film. La sua media resta quella di un film all'anno. Alcuni gli riescono bene, altri meglio. Gli ultimi in particolare non hanno raccolto recensioni eccessivamente positive. In ogni caso è bello sapere che c'è.
7) Jan Svankmajer (4 settembre 1934) – Hmyz (2018). Karel Capek è quello che ha inventato il termine robot. Ma è anche l'autore dell'opera teatrale Dalla vita degli insetti. Piuttosto che metterla in scena, Svankmajer decide di mettere in scena i tentativi maldestri di una troupe teatrale che cerca di mettere in scena Dalla vita degli insetti. O più precisamente decide di mettere i scena i tentativi maldestri di una troupe cinematografica che vuole riprendere i tentativi maldestri di una troupe teatrale che vuole mettere in scena Dalla vita degli insetti. E si diverte come un matto.
8) George Cukor (7 luglio 1899) – Ricche e famose (1981). Cukor è sempre stato un direttore di attrici. Che al confronto Almodovar sembra un bambino. Per dirne una, nel 1939 ha girato un film (Donne) in cui non c'è nemmeno l'ombra di un attore maschio. E poi Hepburn (sia Katharine che Audrey), Garbo, Crawford, Harlow ecc... Qui, accanto a una splendida Jacqueline Bisset, troviamo anche la madre dell'attuale direttrice di Vogue: tal Candice Bergen. Il fatto che riesca a far recitare bene pure lei ha del miracoloso.
9) John Huston (5 agosto 1906) The Dead – Gente di Dublino (1987). Kurosawa gioca a nascondino con la morte, Huston se la lascia cadere addosso. Come fosse neve. Nella mia edizione Penguin il racconto di Joyce da cui il film è tratto conta una cinquantina di pagine appena. Ci pensa il figlio di Huston, Tony, a farla diventare una sceneggiatura buona per un film di 83 minuti. Con grande discrezione e sensibilità. E per questo si prende un Oscar. Papà John di Oscar ne aveva già vinti due. Ne avrebbe meritati altri, ma a quei livelli non conta. Non è Huston ad avere bisogno di un Oscar. Casomai sono gli Oscar ad avere bisogno di Huston.
10) Jean-Luc Godard (3 dicembre 1930) – Le livre d'image (2018). Lo sanno tutti: è pedante, è noioso, è tignoso, è fissato con le citazioni (ma questo fin da giovane, fin da À bout de souffle). Eppure Godard era uno dei pochi a pensare che il cinema potesse non raccontare storie, ma rappresentare pensieri. E che potesse farlo grazie alla forza del montaggio e alla musicalità dei raccordi. E si badi che la musicalità non è la musica, come diceva Carmelo Bene. Non c'è niente da fare: io con Godard ci casco sempre. Godardiani si nasce. E io, modestamente, lo nacqui.
P. S. Temo di non aver mai visto né La cripta de las condenadas, né La cripta de las condenadas II (entrambi del 2012). Così come devo aver perso Al Pereira vs. the Alligator Ladies e Revenge of the Alligator Ladies (entrambi del 2013). Ma sono sicuro che siano “belli” almeno quanto tutti gli altri film di Jess Franco (12 maggio 1930) che ho visto in vita mia.