Nato a Genova quattro volte vent’anni fa (circa), Giuliano Montaldo è una delle figure più prestigiose, geniali e umane del cinema italiano. Regista eclettico e sceneggiatore per teatro, opera e televisione, nella sua carriera ha fatto anche l'attore. Ha vinto numerosi premi importanti, facendo conquistare a Riccardo Cucciolla la Palma d’oro a Cannes nel 1971 per la sua interpretazione in Sacco e Vanzetti. Attualmente è in libreria, per la Felici Editore, Giuliano Montaldo: un marziano genovese a Roma, la sua ultima fatica letteraria (scritta a quattro mani con Caterina Taricano), in cui racconta con generosità la sua vita di artista e di intellettuale, le amicizie e anche un pezzo di storia italiana.
Il primo film di cui hai dei ricordi…
Quando ero ragazzino frequentavo un circolo cattolico, al cinema Sant’Agostino in via della Consolazione a Genova, dove facevano una doppia programmazione, così mi vengono in mente i film con Amedeo Nazzari, ma erano i film dei “telefoni bianchi” che per la verità non hanno lasciato in me tracce indelebili. Direi che forse gli attori rappresentavano la cosa più intrigante, e Nazzari, con quel suo vocione, era uno che mi piaceva. Mi ricordo la sua interpretazione ne La cena delle beffe. C’erano la Ferida, Valenti, personaggi che in seguito sono stati molto discussi per la loro vita e le loro vicende politiche.
Soprattutto, mi piacevano le comiche di Ridolini, e anche quelle di Charlot, del quale si cominciavano a vedere delle cose. Poi è arrivata la Seconda Guerra Mondiale dove i film di guerra li ho visti dal vero…
Il film che ti ha dato una mano a corteggiare una ragazza…
Non conoscevo ancora Vera, mia moglie - mia collaboratrice principale e con la quale condivido oltre cinquant'anni di vita in comune - quando ho recitato nel 1953 in Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani. Dopo qualche anno, al cinema Mignon di Roma proiettano il film e così invito Vera a vederlo. Recitavo un ruolo in cui morivo in ospedale chiedendo a mia moglie, interpretata dalla magnifica Antonella Lualdi, quale rumore faceva la nuova cassa del nostro negozio. Lei mi risponde “drin drin” e io muoio ripetendo “drin drin". La gente era commossa. Io mi volto verso Vera che, molto secca, mi dice: “Ma sei proprio un cane come attore!”. Destino vuole che, lo scorso anno, per un documentario fatto su di me (Giuliano Montaldo – Quattro volte vent’anni di Marco Spagnoli), ho vinto il premio come miglior attore e io, come cane abbaiatore, l'ho dedicato interamente a Vera!
Il film che hai invidiato ad un collega…
Mi sarebbe piaciuto firmare come regista La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, dove ho diretto solo la seconda unità a suo totale servizio, e per cui la critica americana scrisse che era un film fatto con materiale di repertorio. Eppure non c’è un solo fotogramma che lui non abbia elaborato, studiato, sofferto! Gillo aveva una passione sfrenata per le facce vere e il neorealismo ce l'aveva nel sangue. Credo che La battaglia di Algeri sia un film eccezionale dal punto di vista della costruzione storica, alla cui sceneggiatura aveva collaborato uno straordinario Franco Solinas, che aveva già scritto con lui Giovanna, La grande strada azzurra e Kapò. E poi avrei voluto girare un film di Monicelli, I soliti ignoti.
Il film che ti tira su il morale quando sei triste…
Anzitutto un nome: Mario Monicelli! La parete che viene abbattuta ne I soliti ignoti è uno dei momenti di grande genialità del cinema, che mi fa sempre sorridere di gusto. Mario faceva delle cose che non erano più cinema, erano semplicemente: Mario! Ogni tanto penso a lui e mi diverto, rivedendo i suoi film, un uomo straordinario. Mi ricordo un giorno in cui stavo andando al ristorante in via della Croce con Gillo Pontecorvo che era proprio scaramantico. Vedo da lontano Mario che si mette un giornale davanti al volto. Quando arriviamo vicino a lui, fa scivolare il giornale e, con una naturalezza recitativa degna del miglior Sordi, si rivolge a Gillo dicendo: “Mi avevano detto che eri morto!”. Gillo si rotolava per terra dal ridere e Mario era sempre lì, impassibile.
Il film che ti ha fatto innamorare di un attore…
Quando avevo ventiquattro anni ho fatto l’aiuto regista nel film Sotto dieci bandiere, che giravamo alla Vasca Navale. C’era nella scenografia una tolda di una nave che poteva ondeggiare come se fosse in navigazione. Una mattina, il regista mi telefona dicendo che non stava bene e aveva la febbre. Lo riferisco al direttore di produzione e dopo un po’ si sente il vocione del produttore Dino De Laurentiis che urla: “che c… state facendo!”. Gli viene comunicato che il regista sta male e lui ordina a me di girare. Chiamo il regista per chiedergli cosa fare. Lui mi dice di girare la scena sulla tolda, in cui l’ebreo Samuel veniva insultato. Allora preparo il carrello, monto la cinepresa e dico all’attore: “Scusi, quando lei viene insultato, faccia uno scatto in avanti e prenda l’ascia”. Lui mi guarda e mi dice: “Non capisco perché devo fare lo scatto in avanti e perché l’ascia non è in un'altra posizione”. Iniziamo quindi una discussione e, a un certo punto, perdo la pazienza e l’ascia gliela appoggio sulla fronte e gli chiedo a brutto muso: “Lei come si chiama?”; e lui mi risponde: ”Gian Maria Volonté”. Era il giorno del suo e del mio primo ciak.
Dopo queste prime schermaglie battagliere, ho imparato a conoscere il suo carattere, ma non nego che tornando a casa ho pensato che, forse, sulla posizione dell’ascia non aveva tutti i torti… Da quel momento, ho capito che ci trovavamo di fronte a qualche cosa di irripetibile. A chi mi chiede qual era il segreto di Gian Maria, penso che forse consistesse nel vivere il personaggio, notte e giorno, tutto il periodo, soffrendolo o esaltandolo, ma scegliendo sempre ruoli differenti. Interpretò per due volte solo un personaggio, Aldo Moro, ma lo fece in due modi completamente diversi. Grazie a lui, ho compreso l’importanza dei silenzi. Prima di recitare la battuta, lui la pensava, come se componesse un concetto non scritto ma detto.
Il film che ti sembra ingiustamente sottovalutato dalla critica e dal pubblico…
La storia del cinema è ingiustamente piena di film sottovalutati. Per rimanere sul presente, per esempio, penso a Noi 4, l’ultimo film di Francesco Bruni. Sono andato a vederlo perché lui mi piace come sceneggiatore e lo avevo apprezzato molto con Scialla!. Sono rimasto stupito, perché ci sono degli attori eccellenti (tra cui due ragazzini bravissimi) ed è ambientato bene. Non capisco perché non abbia avuto il successo che avrebbe meritato. Oggi non c’è pazienza, ma quando ho iniziato il mio lavoro trovavi un film in sala anche dopo tre anni dalla sua uscita.
A questo proposito, mi ricordo quando stavo girando a Pontedecimo Achtung! Banditi!. Un giorno, in cui il set era fermo per la pioggia a dirotto, con Andrea Checchi, un uomo adorabile, sono andato a vedere un film uscito due o tre anni prima in cui lui interpretava il ruolo di un cattivo, ma veramente cattivo. Ci siamo seduti in sala al buio e, quando si sono accese le luci, la signora seduta accanto a lui si è voltata e, riconoscendolo, ha tirato un urlo bestiale. A Pontedecimo, il cattivo del film seduto accanto a lei.
Il film che ti inquieta quando lo rivedi…
Direi Psyco, in modo particolare la scena in cui Janet Leigh viene accoltellata nella doccia. Qualche anno dopo ho lavorato insieme a lei nel film Ad ogni costo e le ho raccontato quanto mi aveva fatto spaventare. Il modo inquietante in cui Anthony Perkins compariva e spariva in quella casa mi aveva colpito. Io, che raramente faccio sogni che mi turbano, ho avuto un incubo per quel film e l'ho detto a Janet: “Tu non mi hai fatto dormire una notte!”.
Il film con la tua colonna sonora preferita…
Certamente quelli di Sergio Leone. In un paio di suoi film, ci sono delle colonne sonore dove il lavoro straordinario di Ennio Morricone mescola la strumentazione agli effetti sonori che escono dal cavallo, dallo zoccolo, dal paesaggio e che diventano a loro volta musica. Leone ha prodotto il mio film Il giocattolo e poi ho lavorato con lui una volta, nella seconda unità. L’ho conosciuto per caso mentre raccontava il suo primo film western. Ero nella stanza accanto e lavoravo al mio film Ad ogni costo. Sento qualcuno che fa dei rumori di cavalli al galoppo, nitriti, colpi di pistola, apro la porta e resto a bocca aperta vedendo lui che raccontava il film ai produttori.
Il film che secondo te incarna meglio i nostri tempi...
Devo confessare il mio grande amore per un signore che si chiama Vittorio De Sica. Oggi mi viene in mente sempre più spesso un suo film che si intitola Ladri di biciclette con Lamberto Maggiorani, col quale poi ho lavorato in Achtung! Banditi!. Negli ultimi tempi ho ricordato di frequente questo film per la sua attualità, quel protagonista disoccupato, disperato, magari con il figlio che lo guarda a tavola con disprezzo per aver cercato di rubare senza successo una bicicletta. Umberto D. e Ladri di biciclette sono film scolpiti nella mia memoria e rappresentano corsi e ricorsi storici. Raccontano il dramma della povertà, della disoccupazione e della disperazione nel non riuscire a mantenere la propria famiglia, che purtroppo restano sempre attuali. L’altro giorno ho incontrato un signore per strada e sembrava proprio Umberto D. Elegante, perfetto, con un cartello in mano che diceva: “Ho fame!”. Per Umberto D. ricordo che con i miei amici avevamo fatto una battaglia, perché il proprietario del cinema dove lo proiettavano a Genova voleva smontarlo. Siamo andati "in delegazia”, come si diceva in genovese, per dirgli che non avremmo mai più messo piede in quel cinema se avesse tolto il film.
Si ringraziano Anna Pomara e Giacinto Alfonsi.