Però è Scorsese! Oppure, variante sospirosa: mah, comunque è di Scorsese, eh… Cioè di un grande, grandissimo, a volte il più grande, vittima – da una decina d’anni, ormai – del peggiore caso di senescenza artistica tra i registi della sua generazione, meno immediatamente visibile, però, rispetto a quella di altri, proprio perché “comunque è Scorsese”, fa Scorsese, si ricorda di essere stato Scorsese, riprova a fare Scorsese.
Del resto, basta dare un’occhiata alla filmografia successiva al 2000 per individuare un andamento senil-memoriale, tra il ripiegamento cinefilo e un grave problema di messa a fuoco della realtà (come si racconta la realtà contemporanea? dove si vede la realtà?). Problema comune ad altri registi della sua generazione (e origine di ogni senescenza), nati artisticamente in quel decennio compreso tra l’esaurimento degli slanci modernisti e il trionfo della “condizione postmoderna”.
Scorsese, a questo problema che è di inquadratura e inquadramento, gira attorno da quasi quindici anni, da dopo Al di là della vita, evidentemente a disagio “con i tempi che corrono” ma, anche, a corto di metafore convincenti e di eroi e parabole. Il miglior cinema di Scorsese, del resto, ha sempre posseduto uno slancio tra l’epica e la parabola, in cui “la storia di un uomo” (o di una donna), dispiegata in tutta la sua complessità, traduce al tempo stesso una realtà storica – quell’uomo – e una realtà eterna – l’Uomo.
Così, sulla carta, anche per i disamorati dell’ultimo Scorsese (presente), The Wolf of Wall Street prometteva tutta una serie di cose, forse, addirittura, il ritorno di Scorsese (proprio lui, quello vero), e non la sua versione più o meno frastornata o disorientata. E poi: Terence Winter in sceneggiatura e il solito, grande Di Caprio; ma, soprattutto, una storia e una parabola che sembravano – sempre sulla carta – riportare, appunto, alle tracce narrative e alle ambizioni descrittive del miglior Scorsese (che è poi quello che, più o meno, coincide con i limiti cronologici del cinema postmoderno: 1976-1995); tre ore, voce fuori campo, vita e morte e soldi e sesso, tanta roba.
E invece. Più di ogni altro recente film di Scorsese, The Wolf of Wall Street conferma non tanto l’appannarsi di una grande abilità narrativa (anche se ormai è quasi tutta memoria e autocitazione, e il giochino del racconto in soggettiva, tra ricordo e autoanalisi, con tanto di versione fittizia degli eventi – l’incidente in auto – è puro neobarocchismo narrativo), quanto, soprattutto, l’incertezza del sociologo, la miopia dello storico, la piattezza del filosofo.
Sfortuna vuole (per Scorsese), poi, che il film esca idealmente accompagnato, come in una pala d’altare della contemporaneità (per spiegare la quale Scorsese parte da Wall Street, il film), da una seconda anta del dittico, Blue Jasmine: la protagonista del film di Allen è, chiaramente, la moglie di Wolfie. E nel confronto, anche superficiale, tra i due film, si fa subito chiaro il problema di The Wolf of Wall Street: l’incapacità di indicare il problema morale e, soprattutto, di lasciarlo cadere all’esterno del film e del suo personaggio, fuori dalla storia, dentro la Storia.
Scorsese fa un gran lavoro di raccolta dati: come uno storico armato di pazienza e curioso dei dettagli (fin troppo), cerca di intrecciare cause ed effetti, sentimenti e azioni, modelli (Gekko) e realtà, immaginario e vita; butta dentro tanta roba, appunto, quasi sempre “giusta” e indicativa, allargando le dimostrazione in una serie di episodi che rafforzano, ripetono, sottolineano. Ma ne esce un film bidimensionale, plastico, fermo alla superficie dei fatti, trascinato da un sentimento in bilico tra la compassione (per il personaggio) e il relativismo più spinto (quel controcampo finale che vorrebbe sistemare tutto e trovare nel desiderio della gente comune l’origine di ogni Wolfie), e che finisce per semplificare e risolvere, calcare i contorni, riproporre piattamente contenuti e modelli di descrizione già ampiamente esplorati (con la sola eccezione del registro slapstick-kafkiano che dà vita alla scena migliore del film, quella, appunto – complicazione narrativa a parte – dell’incidente in auto).
Il problema, in breve, è che Scorsese non si pone alcuna domanda (passibile, eventualmente, di non trovare risposta) ma si limita ad alzare i toni – in tutti i sensi –, come quando, più o meno involontariamente, si alza la voce per parlare a uno straniero (a qualcuno che, si presuppone, spesso erroneamente, non capirà) in modo da rendere le parole più chiare: ecco, The Wolf of Wall Street è la versione ad alta voce – non priva di una comprensibile disperazione – di cose già dette, che Scorsese sente il bisogno di ripetere a un pubblico che forse non ha capito.
Il film, così, vive per ribadire una conclusione e una verità che sono già lì, e finisce subito, rendendo le tre ore della sua durata una faticosa – per lo spettatore – lezioncina. Non è solo Wolfie a scimmiottare Gekko: anche Scorsese finisce per fare un film alla Stone, senza nulla aggiungere al racconto di un’epoca e della sua morale, senza inventarsi un eroe (nel bene e nel male) capace di riassumere lo “spirito dei tempi” (ambizione evidentissima), fallendo nel tentativo di usare il recente passato per comprendere il presente e magari uno scorcio di futuro.
Tutto il contrario di Allen: che ha la pazienza filosofica di sfogliare a poco a poco le contraddizioni della sua Jasmine, di toccare, a ogni nuovo snodo del film, un diverso problema (o una diversa angolazione di uno stesso problema), imponendolo alla coscienza e forzando ogni cecità preventiva (mentre Wolfie, che crede di vedere e capire tutto, alternando iperveglia e ipersonno chimicamente indotti, non raggiunge mai, davvero, una piena coscienza della propria condizione). Del resto, le Madame Bovary – che vivevano e, insieme, sognavano il loro tempo, lo desideravano e truccavano – sono sempre state più interessanti dei Charles, con le loro occupazioni borghesi e perbene. Di Wolfie, in fondo, sappiamo già tutto; di Jasmine, quasi niente. Ed è questo quasi niente che ci riguarda e ci interessa.