Malatempora

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Nostalgia e utopia

Nella prefazione “trent’anni dopo” (quindi metà anni Novanta) alla sua raccolta di saggi Contro l’interpretazione (primi anni Sessanta, New York), Susan Sontag – che solo adesso si accorge di aver teorizzato una “nuova sensibilità” che era già inestricabilmente intrecciata alla logica del tardo capitalismo – scrive che «i due poli del sentimento tipicamente moderno sono la nostalgia e l’utopia. Forse la caratteristica più importante dell’epoca che ora porta l’etichetta di anni Sessanta era che ci fosse così poca nostalgia. In questo senso, fu davvero un momento utopico».
La frase che non ha bisogno di scrivere è che, al contrario, ciò che è venuto dopo si è nutrito di molta nostalgia e di sempre meno o nessuna utopia. Non ha bisogno di scriverla anche perché nel frattempo – e cioè a partire dai primi anni Ottanta – la celebre tesi di Fredric Jameson sull’effetto-nostalgia della produzione culturale postmoderna e, soprattutto, la sua volgarizzazione (peraltro infarcita di fraintendimenti) hanno trasformato la nostalgia nel mood di un’epoca. E di utopie – moderne e moderniste – neppure l’ombra.

Del resto, in rapporto al piano della Storia, la nostalgia non possiede nulla di autentico o “altruistico” o imperativo – cose di cui ha invece bisogno l’immaginazione di qualcosa di davvero nuovo e diverso («Il faut être absolument moderne», Arthur Rimbaud, 1873). A ben vedere, la nostalgia funziona anche come un’arma di difesa; fraintende per statuto la Storia e sfugge così un confronto reale.

Se la serie Netflix Stranger Things – a proposito della quale si è scritto spesso di nostalgia – ha qualcosa di interessante da dire sugli anni Ottanta – e cioè, più esattamente, sul nostro rapporto (trent’anni dopo…) con quel decennio –, è proprio questo: che, per il momento, il tenore della relazione è ancora epistolare – a debita distanza, lento, per segni e convenzioni. Insieme, però, questo sentimentalismo retrò testimonia anche qualcosa di meno volontario: per come si sono svolti gli anni Ottanta, la nostalgia rischia di essere l’unica strada percorribile – o, quantomeno, la più dritta e popolare e anche, naturalmente, commerciale.

Troppo immaginario (allettante perché già nostalgico) e troppa Storia (e senso della Storia) fuori campo (senza per forza scomodare Baudrillard). E troppo immaginario subito senza tempo, già pensato come tale. Una resistenza di cui ci si rende meglio conto guardando a quanto è stato fatto di recente (a quanto è stato possibile fare) sugli anni Settanta (sempre americani, anzi newyorkesi) da una serie tv come Vynil e, soprattutto, da un romanzo come Città in fiamme. Chiamatelo, se volete, realismo storico; quando si lavora sul mito, è sempre possibile ritrovare, da qualche parte, la realtà. L’immaginario, invece, possiede qualcosa di gommoso – oltre che senza tempo, è anche senza spazio.

Eppure è proprio da qui, dal repertorio visivo degli anni Ottanta, che si deve ripartire; non però come fa Stranger Things – che chiude subito il discorso perché funziona benissimo, ovvio – ma, piuttosto, con la lentezza e il realismo e la filologia di una serie (per restare alle serie) come The Americans; lavorare, insomma, sulle forme del travestimento, anziché a partire dal fascino per il costume: nessun altro decennio più degli Ottanta (e penso naturalmente anche al caso italiano) ha oggi bisogno di essere riguardato ponendosi nel punto esatto in cui la realtà si scambia con l’immaginario (nel momento esatto in cui i russi diventano americans, insomma); evitando dunque sia la nostalgia (gli americani), sia un approccio piattamente frontale e ideologico, e tutto dalla parte degli abusi della credulità popolare (i russi).

Un buon modo, anche, per evitare, in tempi ipermoderni (Charles, Lipovetsky), di pensare – facendo funzionare la nostalgia a pieno regime – che gli anni Ottanta siano stati l’ultimo decennio “normale” di questo secolo brevissimo. Di pensare che le “stranger things” di quel decennio fossero, tutto sommato, più addomesticabili e comprensibili di quelle di oggi.