Nel 2002 ho pubblicato questo testo per le pagine di cultura de ilmanifesto. Mi era piaciuto scriverlo e, di Natale in Natale, per qualche ragione, è sempre rispuntato dal passato – come ricordo, come rilettura, come regalo a un amico… Non me ne vorrà – sono certo – ilmanifesto se, undici Natali dopo, lo regalo a cineforumweb.
Roderick, Lucia e mamma Bayard siedono a tavola per il loro primo pranzo di Natale nella casa nuova. Fuori, il sole fa più bianca la neve. Parlano di viaggi e di antenati. Manca solo il cugino Brandon: giunge con un po' di ritardo e, unendosi agli altri, non può trattenersi dal manifestare tutta la sua gioia per quel pranzo e quella riunione di famiglia. E, soprattutto, per il Natale che li ha resi possibili.
Questa immagine di pace domestica, sospesa fra idillio rurale e spinta alla modernizzazione, è destinata a capovolgersi nell'epilogo di Il lungo pranzo di Natale (1931) di Thornton Wilder: novant'anni e novanta pranzi di Natale dopo, le fabbriche che prima hanno arricchito Roderick e i suoi figli rendono l'aria irrespirabile («la fuliggine attraversa le mura»), mentre di generazione in generazione è cresciuta la voglia di scappare. Nella casa ormai vecchia, non resta che una lontana parente di mamma Bayard, l'anziana Ermengarde. E proprio al termine di un nuovo 25 dicembre anch'ella chiuderà gli occhi per andarsene altrove. Sulla tavola, i resti di un pranzo frugale.
Via via sempre più povero di culle e di parole e sempre più carico di ricordi e di lapidi, il testo di Wilder impiega genialmente la lente d'ingrandimento della festività natalizia per raccontarci le trasformazioni in corso in quella cellula vitale della democrazia statunitense che è la famiglia e, per questa via, svela i più profondi arrangiamenti molecolari che definiscono l'identità culturale del paese.
Mossa più che legittima, poiché il Natale americano, costruito all'incrocio fra tradizioni nordiche (dove San Nicola è Hausgeist, spirito della casa) e inglesi (con il «buonismo» dickensiano importato alla metà dell'Ottocento), e inquadrato tradizionalmente come controcanto laico ai principi cristiani di pietà, bontà e fratellanza, è rito domestico per eccellenza; e, per questo, «banco di prova per la capacità di uomini e donne di vivere insieme»: così lo descrive Sherwood Anderson, che in quel capolavoro di microsociologia che è La piccola città americana (1940) lascia inoltre intendere come la carol philosophy, al pari di molti altri tasselli del puritanesimo a stelle e strisce, rischi di essere travolta – assieme all'istituzione famigliare – dalle fantasmagorie moderniste della metropoli.
E in effetti, nell'imprecisato futuro su cui si chiude l'atto unico di Wilder, il mito di Santa Claus, da rito aggregativo e memoriale, dove morti e divinità lasciano le proprie altezze per rinnovare la vita attraverso il dono, e grazie al quale, molti anni e molti pranzi di Natale prima, i coloni poterono riconoscere una fratellanza altrimenti insospettabile, sembra essersi trasformato, a contatto con la politica fordista dell'esistenza, in un rituale vagamente ferale e punitivo.
La sua retorica, perduto ogni contatto con la realtà, si è fatta teologia negativa; celebra soprattutto ciò che non è e non sarà più, ci parla di un'assenza e un'impotenza, di un'incapacità ormai terminale, per donne e uomini, di vivere insieme. Al punto che con la contro-cultura beat i suoi simboli si troveranno rovesciati in strumenti funerari. «I nostri alberi di Natale formato cassa da morto sono proprio lì, signore»: li vende il protagonista di Pesca alla trota in America (1967) di Richard Brautigan. C'è una vecchia zia da seppellire. Forse la zia Ermengarde.
Novant'anni e novanta pranzi di Natale dopo, Santa Claus ha insomma compiuto un passaggio irreversibile da positivo rito identitario, centrale nella costruzione dell'unità famigliare, a rituale consumistico (Santa's Workshop di Disney, del `32, è una catena di montaggio del regalo e della felicità) e a precetto sociale disgregante e implosivo. Il binomio Natale-famiglia si è fatto, poco alla volta, scenario orrorifico, perché il rinnovarsi implacabile della festa si è andato scontrando in modo sempre più violento con l'altrettanto implacabile tramonto della famiglia tradizionale, così che la prima, nel rendere tutto più luminoso, finisce soprattutto per materializzare i fantasmi e i fallimenti della seconda: trasformando il pranzo di Ermengarde in un banchetto amletico da cui non sono al riparo neppure i più piccoli.
Anzi, per il Buddy-Truman Capote di Un Natale (1983), Santa Claus si traduce addirittura in un doloroso rito di passaggio, che immette con troppo anticipo nel disincanto: figlio di genitori divorziati – padre gigolò e madre avventuriera, una «signorina» alla Zelda Fitzgerald – Buddy scopre e perde tutto proprio fra il 24 e il 25 dicembre, a New Orleans, lontano dalla sua famiglia di zie e di cugine devote.
Il padre avvinghiato a una vecchia e ricca signora, il padre che sistema i regali sotto l'albero, il padre che trasale quando il figlio estrae una foto della madre: questo babbo che con le sue illecite effusioni rischia di impedire l'arrivo di quello bianco e paffuto e che sceglie infine di far fuori il rivale per (ri)appropriarsi del suo Buddy: «Non posso permetterti di tornare da quella famiglia di pazzi... Guarda come ti hanno ridotto. Un ragazzo di sei anni, quasi sette, che parla di Babbo Natale. È tutta colpa loro, di tutte quelle vecchie zitelle inacidite con le loro Bibbie e i loro ferri da calza e di quegli zii sempre ubriachi. Ascoltami, Buddy. Dio non esiste! Babbo Natale non esiste!». Discorso disperato, violento e doppiamente omicida, perché s'illude di dar forma a una famiglia sulle ceneri di un suo rito primario e fondativo. Altre bare a forma d'albero per altre vecchie zie. E una in più per il piccolo Buddy.
Il racconto di Capote, così come i testi di Wilder e di Anderson, impiegano il Natale non soltanto come osservatorio privilegiato sul degrado «dei valori tradizionali puritani del lavoro, della sobrietà, dei traguardi nella vita e dell'istituzione della famiglia» (Susan Sontag): cercano anche delle risposte a questo degrado e, fra le due guerre mondiali, le trovano nella modernità incarnata dalla metropoli, nei suoi ritmi capitalistici e nella sua logica consumistica. E istituiscono un limite: il rispetto del culto e l'adesione spontanea alla retorica del Natale, fatti a pezzi fra New York, New Orleans e Los Angeles, diventano, per opposizione, cosa da zitelle devote, bambini creduloni, vecchi ubriaconi di campagna. Roba per l'infanzia, dell'uomo e della mente.
E la minaccia della città smemorata, che svilisce il rito per addomesticarne il senso fattosi ormai problematico, è già in una poesia di Robert Frost, Alberi di Natale (1919), dove «un forestiero» è «la città che ritornava / in cerca di qualcosa che si era lasciata alle spalle / e che era indispensabile al suo natale»: gli abeti della campagna. Il forestiero valica il confine fra le due realtà – «cittadino all'aspetto», denuncia nei suoi gesti qualcosa di campagnolo – e insegna al protagonista della poesia che cosa sono e quanto valgono i suoi abeti: «Mille Alberi di Natale, che non sapevo di avere». Il forestiero offre 30 cent ad abete, l'altro rifiuta. Perché, all'improvviso, capisce di poter vendere i suoi alberi agli amici di città. Per un dollaro almeno. E non sarà un caso che nella Saint Louis di Minnelli (Incontriamoci a Saint Louis, 1944), proprio nella notte della vigilia del 1903, papà Smith decida di annunciare alla sua numerosa famiglia che ha cambiato idea, che non partiranno più per New York. Perché l'uomo, che pure, cronologia fictional alla mano, non può aver visto La folla (King Vidor, 1928), immagina benissimo i natali di tutti i Sims newyorkesi (il film è ambientato a inizio secolo): dentro una casa troppo piccola, con il treno che squassa il silenzio ogni cinque minuti e lo spettro del fallimento seduto a tavola fra cibo e parenti.
Scandito dal passare delle stagioni, Incontriamoci a Saint Louis di Minnelli (che il film di Vidor l'ha visto sicuramente...) ritualizza dunque l'inverno come momento di celebrazione dell'unione famigliare, facendo del Natale il ring emblematico entro cui risolvere il conflitto fra individuo e comunità, ossequio alla tradizione e spinta al rinnovamento, fedeltà alla provincia e desiderio della metropoli.
Capra, due anni dopo, in La vita è meravigliosa (1946), farà di più, ambientando nella notte della vigilia una parabola di sapore dickensiano destinata a ripassare, uno a uno, i valori fondamentali della società americana, a partire dalla loro messa in crisi. Così, ordinatamente, l'ira di George-James Stewart ricade sulla casa addobbata a festa e sui figli eccitati per l'arrivo di Santa Claus, sulla retorica della «famiglia felice» e sull'anima della «piccola città americana», per poi rovesciarsi, nell'epilogo, in lode allo stesso immaginario, di cui l'uomo ritrova il senso e i valori in una casa dove, pronta a donargli tutti i suoi risparmi, c'è la sua comunità al completo, compresi «la negra» e quelli che dovrebbero arrestarlo per bancarotta; e dove, infine, giunge anche il fratello, eroe di guerra, che ha lasciato in tutta fretta New York, rinunciando ai festeggiamenti in suo onore. La carol philosophy, enunciata nel canto che chiude il film, almeno nella provinciale Bedford Falls, è salva, e nella sua salvezza si rinnova quell'insegnamento di fratellanza su cui l'America democratica, appena uscita dalla guerra, vuole ricominciare.
Novant'anni e novanta pranzi di Natale dopo, e dopo l'arrivo dei forestieri e le parole del padre di Buddy, La vità è meravigliosa – assieme a una manciata di titoli coevi, da Al tuo ritorno (1944), con Ginger Rogers che lascia il carcere e ritrova l'amore nel giorno di Natale, seduta a tavola in una piccola città di provincia, a Tre figli in gamba (1947), in cui l'arrivo di Santa Claus riunisce miracolosamente una famiglia sgangherata di gigolò, gangster e cowboy (ossia: tre americhe e tre generi cinematografici) – è roba buona per nostalgici e bambini. È un passato remoto del folklore americano e un presente favolistico dal tenore disneyano. Anche perché un nuovo, più minaccioso forestiero, capace di scavalcare qualsiasi confine, ha fatto il suo ingresso nelle case degli americani, di tutti gli americani, magari proprio nel giorno di Natale, sotto forma di regalo, come in Secondo amore (1955) di Sirk: il televisore.
L'immaginario natalizio allora cambia e si uniforma; ma, soprattutto, si spostano l'esecuzione del rito e si modifica la sua comunicazione. La televisione batte il tempo al ritmo della quotidianità, è un invitato in più a ogni celebrazione e spesso ne diventa l'officiante, rifà il gioco delle relazioni e indebolisce il legame comunitario. Non a caso, dopo essere stata lasciata dal marito proprio nei giorni di Natale (lui le ha regalato una scopa...), Virginia, la protagonista del racconto Un interesse nella vita di Grace Paley (1958), si fa un amante, John, e un confidente, la televisione, cui decide di scrivere per partecipare a Vinci una fortuna, dove assegnano soldi e premi sulla base delle disgrazie del concorrente.
La vita insomma, grazie alla televisione, può ancora essere meravigliosa. Anche a Natale, quando la rovina degli affetti e della famiglia si fa più evidente, perché al di là dello schermo c'è adesso una variegata comunità fra cui scegliere i propri parenti. Un mondo dove Santa Claus non solo esiste ma funziona. Con qualche piccola differenza: che i doni, anziché dal tintinnio delle renne, sono condotti dalla musica degli spot; che la festività, anziché aprire un magico varco fra regno dei vivi e regno dei morti, celebra soprattutto il legame fra produttori e consumatori; che gli abeti, anziché un valore, hanno ormai soltanto un prezzo; che la famiglia, da reale, si è fatta virtuale.
Ma l'esito di queste trasformazioni è anche curativo, perché il piccolo schermo è un padrone di casa estremamente democratico: dà un corpo dolce ai fantasmi del padre di Buddy, fa compagnia alla vecchia Ermengarde e offre denaro a George e a Virginia. Ben si comprende, allora, la titubanza del Giovane Holden di Salinger (1951) che, di ritorno da scuola per le vacanze natalizie, preferisce indugiare nel freddo delle strade e nel caldo dei ricordi, e introdursi in casa sua come un ladro, evitando ogni contatto con i genitori. Ma si capiscono anche la dolorosa nostalgia che attraversa un altro racconto di Capote, Un ricordo di Natale (1956), e l'aggressione violenta della generazione beat, come in Pasto invernale foto di gruppo inclusa (1969) di Jim Dine, dove il Natale è un rito disgustoso di macellazione e di cannibalismo dei sentimenti.
C'è, infine, un quarto atteggiamento, quello della generazione nata negli anni Sessanta, priva di rimpianti per un immaginario e un rito che non ha mai vissuto realmente e, al tempo stesso, disinteressata a denunciarne la retorica. Le natalizie riunioni di famiglia si fanno allora sempre più grottesche e finiscono per materializzare con forza soltanto ciò che non è e non sarà più. Per accorgersene, basta entrare nel salone di Chasen's, nella Los Angeles di Meno di zero (1985) di Breat Easton Ellis, e avvicinarsi al tavolo di Clay, tornato a casa per Natale dopo un semestre universitario (se Holden avesse avuto più droga in corpo e meno romanticismo nel cuore, sarebbe riuscito a baciare i suoi genitori). Padre e madre sono divorziati, le sorelle abbronzate, Clay inappetente. Alla cena della vigilia tutti «sembravano veramente nervosi e irritati per il fatto che le vacanze debbano rimetterli insieme». Il 25 trascorre senza parole: il padre stacca assegni, la madre beve champagne e le sorelle scartano regali. Clay si fa di coca.
Poco meno di dieci anni dopo, nel 1993, dall'altra parte dell'America, nella New York de Il nostro Natale (2001) di Abel Ferrara (dove c'è anche Kevin, che ha perso l'aereo per la seconda volta perché la sua famiglia, in partenza per un Natale in California, l'ha dimenticato o, com'è legittimo sospettare, ha preferito sbarazzarsene), si sta tenendo una festa di Natale. Su un palco, un gruppo di bambini mascherati recita un frammento dickensiano mentre un televisore, in tempo reale, riproduce lo show. Finito lo spettacolino, una delle piccole attrici, Lisa, è in strada con i genitori. I tre decidono di rincasare a bordo di un calesse addobbato. Dietro di loro, con un cigolio spettrale, si chiude un portone. A casa, prima di fare l'ultimo shopping, ci sono ancora delle dosi di coca da confezionare. E chissà che un po' di quella droga non sia finita anche al party natalizio di Eyes Wide Shut (1999), dove una prostituta va in overdose mentre gli invitati danzano al ritmo di Strangers in the night, o nell'appartamento di Regali semplici di McInerney (1998), dove Lori finisce per passare sola la vigilia perché sbaglia i tempi: lei si fa di coca, il fidanzato di tranquillanti.
Film terminale sotto ogni punto di vista, Il nostro Natale intona il canto di morte della festività, dei suoi simboli e dei suoi spazi di realizzazione, sommando finzione alla finzione (da quella teatrale e televisiva a quella sociale), svelandone il dramma dietro le quinte e parlandoci dell'avvenuta trasformazione del Natale da rito identitario della famiglia americana a faticosa messa in scena postmoderna, dove il regno dei morti ha sembianze umane. Non sarà un caso, allora, se fin dagli anni Ottanta, a partire dalla serie cinematografica Die Hard, la sopravvivenza del Natale è diventata un affare da supereroe: a Los Angeles, nel 1988, il poliziotto John McClane, prima di poter abbracciare moglie e figlia, deve sventare un piano terroristico (e, sventandolo, dimostrare tutta la sua devozione alla famiglia e a Santa Claus). Qualche anno dopo, nel 1992, la rescue operation della festività sarà affidata nientemeno che a Batman: un uomo-pinguino minaccia Gotham City. Vive nelle fogne, dove è stato abbandonato dai suoi genitori: trentatré anni prima, il giorno di Natale.