Che tenerezza. Giornalisti e critici che scrivono del nuovo Twin Peaks parlando di trama e nostalgia, dell’essere di moda e della violenza che non c’è o c’è meno, che fanno confronti interni, come se fossero passati 25 (anzi 26) anni, ed esterni (la serialità contemporanea), che recensiscono le singole puntate e che azzardano previsioni su quello che succederà (attenzione, spoiler!).
Che tenerezza, e che pena: Lynch lo aveva evidentemente previsto, e nel quarto episodio di Twin Peaks 3 (nel momento in cui scrivo, l’ultimo trasmesso), a queste persone dà anche un nome, Chad («Sei un Chad» si candida seriamente a diventare un’invettiva generazionale, almeno nell’ambito della critica): Chad è il ragazzotto barbuto e annoiato che, appoggiato a un muro della sala riunioni della centrale di polizia di Twin Peaks, ascolta Hawk mentre spiega allo sceriffo Frank Truman quanto gli è stato riferito dalla Log Lady («Something is missing», e questo qualcosa ha a che fare con l’agente Dale Cooper e con l’identità indiana di Hawk), e che, al termine della conversazione, osserva che la donna è probabilmente un «10-96 o un’amica di Pinocchio» – fuor di codici e similitudini, una pazza o una rimbambita contaballe. Chad viene congedato (ma, uscendo, si riserva ancora una battuta: «Vado a parlare con la mia pigna»), e poco dopo, nella stessa stanza sul cui tavolo Hawk ha sparpagliato i documenti del caso Laura Palmer e una fotografia della ragazza (la fotografia, l’icona), entra Bobby, adesso poliziotto: i loro sguardi si incrociano, la musica (quella musica) invade la scena e le lacrime salgono agli occhi del ragazzo. Chad si è perso il momento ma, del resto, se fosse stato presente avrebbe probabilmente reagito come ha fatto poco prima di fronte all’ingresso e alle parole di Andy e Lucy: sbuffando.
Chad non capisce, anzi, non può capire, un po’ come i giornalisti e/o critici di cui sopra (che sbuffano via Internet). E per due ragioni: perché non c’erano all’inizio di tutto, o se c’erano non guardavano e ascoltavano, o perché, se anche c’erano e guardavano e ascoltavano, nel “meanwhile” trascorso non hanno saputo onorare quello che era, a ben vedere, un patto e una scommessa e forse anche (soprattutto?) un test – in ogni caso, una questione molto, molto privata e, insieme, profondamente generazionale.
Così che Twin Peaks 3 (perché mica si tratta della terza stagione di una serie televisiva) finisce forse, neppure troppo involontariamente, per trasformarsi in una specie di grande appello: da una parte i Chad, dall’altra parte… beh, i non-Chad. Il fatto, poi, che questo Twin Peaks arrivi adesso, in pieno orgasmo seriale, rende tutto ancor più interessante e per certi versi divertente (e rivelatorio, sul piano generazionale e della critica): perché solo chi ha stretto fin dall’inizio e poi onorato quel patto (quando Twin Peaks non era per nessuno, semplicemente, una “serie” Tv all’inizio dell’epoca dell’oro della serialità: non solo una questione di prospettiva storica…) possiede oggi gli occhi e le orecchie (sound design by David Lynch) ed eventualmente la penna per guardare e ascoltare e capire davvero questo terzo tempo; lo spettatore (e poi magari il giornalista e/o il critico) della serialità contemporanea (nato con) finirà invece quasi immediatamente strozzato dal suo stesso, ripetitivo allenamento a una sola logica (ormai imperante), quella della serialità, appunto (una cosa dopo l’altra, una cosa a causa dell’altra, frammenti in fila indiana), e dal suo lessico e dalle sue parole chiave – spoiler, episodi, stagioni, cliffhanger, recap… (provatevi voi a fare il recap delle puntate – puntate? – di Twin Peaks!).
«Is it the future or is it the past?», chiede (o forse afferma, al di là del punto interrogativo) nel secondo episodio l’Uomo con un braccio solo, rivolgendosi, nella Black Lodge, a Dale Cooper. L’inattualità di Lynch (che è cosa molto diversa dall’essere, oppure no, “di moda”, come pure – che pena, che tenerezza – si è scritto) è esattamente questo dubbio, e cioè questo scarto rispetto al tempo delle cose (compreso quello della serialità, e della vigorosa serialità contemporanea), questo miracoloso appartarsi rispetto al tempo, per essere davvero, e sempre, contemporaneo – eternamente fuori serie.
Dunque, Chad, lascia perdere, esci dalla stanza, per favore; torna pure a guardare la televisione e a occuparti di serie tv. Questo Twin Peaks è per te irraggiungibile, proprio perché si tende tra un passato, che era già futuro, e un presente che ancora non esiste; perché davvero, prima di poterlo guardare (ed eventualmente scriverne) dovresti capire che cosa può significare parlare a una pigna (senza, naturalmente, voler davvero parlare a una pigna). E non confondere, Chad, questo Lynch con un vecchio pazzo un po’ sordo o un narratore di favole dalle pause troppo lunghe (ah, dimenticavo un altro termine caro alla serialità contemporanea: storytelling…); e, allo stesso modo, evita, per cortesia, di scrivere di effetto nostalgia quando ti riferisci alle attese degli spettatori (che poi, se apri un dizionario, capisci subito perché, al di là di tutto, in questo contesto “nostalgia” è un termine improprio): solo chi c’era all’inizio di tutto, ed è stato poi capace di onorare quel patto (che, si sarà capito, ha che fare con un certo modo di guardare il mondo e le sue immagini), solo chi ha saputo muoversi nel tempo e nello spazio («I’ll see you again in 25 years») e, insieme, mantenere la posa “meanwhile” suggerita da Laura Palmer, solo questo spettatore possiede oggi gli occhi e le orecchie giusti per rivedere questo Twin Peaks.
Che non è la terza parte di una serie tv in 18 puntate, ma un nuovo ingresso (del resto, in queste prime quattro puntate è tutto un superare soglie, percorrere corridoi, materializzarsi e smaterializzarsi, non tornare, perché da sempre lì) in un pezzetto di mondo in cui i Chad non saprebbero neppure che cosa guardare, e come. Hello-o-o-o!