Grazie, ma tra comunismo e capitalismo, scelgo il cinema, e sempre lo sceglierò.
Una fede che s’inceppa, certo, come rivela il monologo finale del centurione interpretato da Baird Withlock (George Clooney) che, ai piedi della croce, tira dritto per due minuti, scaldando il cuore della troupe e degli attori, mentre la musica sale assieme alle lacrime e il miracolo della conversione si fa quasi palpabile, nella tensione del corpo e nello smarrimento dello sguardo piantato verso il cielo (il fuori campo); ma poi, su una parolina, una sola, l’ultima – “fede” – la memoria vacilla, l’attore si mangia il personaggio e tutto è da rifare. Ma, grazie a dio (mentre Gesù Cristo mai si vede, e giustamente: né quello in croce della scena appena citata, né quello sui giornalieri del film nel film, Hail, Caesar!, sostituito da un emblematico “to be shot”), si può. Una fede, quella nel Cinema, baraccona, improvvisata, intermittente, dalle vocazioni per soldi o divertimento, per caso o follia. Ma se alla fine Eddie Mannix (Josh Brolin) – che col tempo terreno misurato dalla lancette di un orologio ha un rapporto di rispetto quasi divino – sceglie di restare dov’è, al piano alto executive della creazione continua di mondi distribuita tra gli studios della Capitol (Hollywood classica, primi anni Cinquanta), non è per dovere o entusiasmo ma, appunto, per fede (e speranza). Che gli si dipinge dolcemente sul volto in una delle scene più belle del film, una manciata di minuti ambientati nella editing room di C.C. Calhoun (Frances McDormand): Mannix avvicina il volto alle immagini sincronizzate in diretta della montatrice, e quel tremolio luminoso di corpi e parole stimola un sorriso che sa di visione (mistica).
Con Ave, Cesare! i Coen hanno insomma scritto e diretto il loro film più religioso, e se sono tornati indietro non è per nostalgia postmoderna, cinefilia, spirito di rivisitazione e emulazione (e far l’elenco dei riferimenti è ormai pura routine interpretativa, che non serve a nulla e a nessuno), ma per ricordare – senza integralismi… religiosi ma, anche, senza malinconie apocalittiche – dove sta l’inizio di tutto, e che se siamo diventati quello che siamo diventati (e, forse, anche, se siamo sopravvissuti a quello che siamo diventati), è perché a un certo punto, tra Marx e Freud, Marcuse (totem due volte frainteso) e Ford, si è infilato il Cinema, che li ha scartati tutti e, insieme, li ha fatti sposare a tradimento e per gioco – potere dell’editing e del ciak, di cosa è in campo e di cosa è fuori campo, appunto. Perché nella religione dello Schermo – superficiale, ingombrante, imprecisa, ma anche tollerante, generosa, accomodante – c’è posto per tutti, e tutti possono chiedere e ottenere diritto di cittadinanza – e basterebbe questo a fare di Ave, Cesare! un film che ha solo i piedi piantati nel passato, non la testa; questa, anzi, guarda per metà al presente, per metà al futuro.
Perché il bello di questa religione è che i conti non tornano davvero mai (non devono tornare, o non è necessario che tornino) – niente Libri e Scienza, insomma: nel puzzle (esercizio di montaggio…) che due degli sceneggiatori-comunisti-rapitori di Baird Whitlock portano a termine nella lussuosa dimora di Burt Gurney (Channing Tatum, protagonista del numero più bello del film, che è anche una specie di esercizio teorico del genere “giro una scena cult”, o scrivo una parabola), l’ultimo pezzo resta fuori perché non s’incastra da nessuna parte, così che una piccola macchia scura finisce per occupare il centro di un quadro bianco. Ma la religione del Cinema è proprio questa cosa qua, è in questa cosa: l’umanissimo elogio (senza assoluzioni e condanne: aprire e chiudere il film con la recita senza senso della confessione cattolica serve, anche, a marcare una differenza) dell’imperfezione di tutte le cose, e del loro consumarsi, morire e risorgere, sdoppiarsi e mutare (i costumi rossi/gialli del numero acquatico di DeeAnna Moran, interpretata da Scarlett Johansson; le due Tilda Swinton), spegnersi e riaccendersi (come le luci di uno studio). Una religione dell’errore, del rifacimento sempre possibile, della défaillance emendabile. Della re-visione della visione.
Ben più di un atto d’amore o di una pagina di diario cinefilo, Ave, Cesare! non piange o rimpiange un bel niente, e se entra nella fabbrica dei sogni è anche per ricordarci – da una distanza “storica” – del più potente sogno alchemico del Novecento (e oltre): aver trasformato l’oro (una bella manciata di denari) in visioni, e aver intrappolato la luce intermittente di queste visioni dentro uno schermo. E poi, felicemente, tutti ai piedi di una croce: ma quella di Malta.