Il 3D è sempre stato una sciocchezza. Lo era negli anni Cinquanta, lo è stato fin dall’inizio della sua ripresa contemporanea. Un effetto speciale perlopiù trascurabile – anzi, un trucco (quegli occhialoni…). E un paradosso: perché il cinema è già a tre dimensioni; quella cosa che chiamiamo 3D è semmai una protesi, un’estroflessione, un rigonfiamento della superficie dell’immagine. Usato, quando va bene, per divertire; quando va male, come una cosa in più – trascurabile al punto da dimenticarsi, appena usciti dal cinema, se il film era in 3D oppure no.
E poi, che cosa potrà mai avere di “estetico” – per non dire di autoriale – una condizione dell’immagine del tutto accessoria, per cui accanto al 3D lo stesso film può tranquillamente esistere in 2D? Difficile immaginare un’indifferenza analoga su altri aspetti – che so, il colore o il formato.
Detto questo, il 3D può anche essere divertente, a volte entusiasmante: un’attrazione – nel senso originario e antico che questa parola possiede con riferimento al cinema –, magari da gemellare all’IMAX. Ma restiamo nell’ordine del piacere, non del bello.
Poi, però, arriva un film come Gravity, e una tecnologia come il 3D (e l’IMAX a seguire) trova, finalmente, il suo senso. Non ci sono riusciti quel nerd di Jackson e neppure il più sofisticato Cameron: i signori degli anelli e gli avatar sono, non a caso, rigonfiamenti digitali di una Hollywood classicissima e pure un po’ stanca. Gravity no, è il primo (e resterà sicuramente a lungo l’unico) film in cui il 3D serve a qualcosa, soprattutto se associato all’IMAX: serve, in particolare, a definire una logica dello sguardo fondata su una distorsione spaziale.
Siamo, del resto, da un’altra parte: più esattamente, in un luogo in cui principi strutturanti come la nozione di campo e la sua profondità (ma anche il suo fuori), l’orientamento spaziale, l’idea di oggettività e di punto di vista non hanno più alcun valore; il montaggio stesso non ha senso – oltre a contenere un gran numero di inquadrature lunghe e piani sequenza, Gravity, di fatto, è un film senza montaggio, più esattamente non montabile.
È un film in cui il 3D smette di funzionare come ha funzionato fino a oggi – come qualcosa che “esce” o, alternativamente, “tira dentro” – per diventare l’unica misura possibile di una scena senza misure, di fatto cancellandosi. Non più un effetto speciale, ma l’unica tecnologia di sguardo possibile per mostrare un’altra logica e un altro modo di esistenza dei corpi e dello sguardo.
Non c’è altro modo di vedere Gravity: 3D e IMAX. Qualsiasi altra visione non si allontana semplicemente dal film, lo cancella. Basterebbe questo a sostenere lo scarto: la tecnologia, in Gravity, si fa stile, e il 3D avvera finalmente il suo destino, dopo tanti anni di sorprese e giochini infantili. Al tempo stesso, negando ogni altra possibilità di visione, il film di Cuaron realizza quello che il nerd di cui sopra, pasticciando con la velocità dei fotogrammi, non ha ancora raggiunto: un film che sia solo e soltanto cinema, e che dal cinema, e dalle sue misure, non può scappare (verso schermi televisivi o computer o tablet ecc.).
Gravity è cinema puro e, insieme, il primo esempio riuscito di film digitale (non, semplicemente, in digitale). In questo modo, del resto, non avevano mai guardato. E vissuto.