Il cinema di Lars von Trier ha prodotto uno dei pochi casi di bipolarismo perfetto nella recente storia della società occidentale. Chi lo ama, chi lo detesta. Fine. In mezzo niente (anche se, a dire il vero, proprio in patria è trattato con il grigio: un misto di rispetto, deferenza e indifferenza…). E allora, sembra necessario dichiarare subito l’allineamento: nel mio caso, dalla parte (minoritaria) di quelli che lo amano, considerandolo tra i più importanti registi del cinema post-postmoderno (anzi, all’origine del superamento del postmoderno).
Difficile, allora, scrivere delle quattro ore diviso due di Nymphomaniac. Che non sono, semplicemente, un brutto film, ma un film sbagliato e, soprattutto, in ritardo, storico e culturale. Che è il peggio che si possa dire a proposito di un regista che – gli affezionati – difendono in generale proprio per la sua capacità di vedere un po’ oltre, anticipare quello che di lì a poco diventerà moda, fiutare prima di altri non, banalmente, l’attualità del “tema” ma, più sottilmente, i bisogni e i desideri e i motivi che rendono le immagini, ancora oggi, necessarie.
In fondo, tutto il cinema di Lars von Trier ruota attorno a questo: il senso e il valore dell’immagine nella società contemporanea. Meglio, il loro potere, perlopiù annebbiato o reso indifferente dall’uso e dall’abuso. Non c’è film di von Trier che non sia, anche, un piccolo saggio di teoria dell’immagine: che non parli, anche, della possibilità dell’immagine di riferirsi alla realtà (all’incrocio tra determinazioni tecnologiche, linguistiche, sociali e culturali) e di farla sentire attraverso l’immagine. Chi scambia tutto questo per semplice sadismo, furbizia, strategia di marketing (le argomentazioni più diffuse nel partito dei contrari) si merita i cinepanettoni a vita (scusate, ma con von Trier si è perennemente in campagna elettorale).
Ora, di tutto questo, nelle due ore per due di Nymphomaniac non c’è alcuna traccia. E pazienza, se ci fosse altro. Ma non c’è nient’altro. Solo la rimasticazione noiosetta e pruriginosa di teorie del femminile, psicologia da bar e schematismi sociologici, tutta roba già sentita, vista, letta, e che Lars von Trier non riesce neppure a riscrivere in bella forma, o a condensare in una sintesi originale.
Succede, in Nymphomaniac, ciò che, per definizione (quella precedente), non dovrebbe mai succedere durante la visione di un film di Lars von Trier: quasi subito, si perde qualsiasi interesse per la storia, la realtà, le immagini, che sfilano di capitolo in capitolo – portate dal racconto anedonico di Joe – senza valore e densità, soffocate da una narrazione enciclopedica che ben presto svela la sua trama simbolica – corpo contro cervello, azione contro riflessione, il primitivo contro il saggio (per poi concludere pessimisticamente con la vittoria feroce dell’istinto). Immagini che non dicono e non pesano nulla. E quel finale tirato via è il peggior omaggio che Lars von Trier potesse fare a se stesso, come un epigono alle prime armi.
A meno di non voler partire per una tangente interpretativa che faccia proprio dell’anedonia dell’immagine (non di quella del personaggio) l’accesso privilegiato e “giusto” al film, alla sua profondità di indagine sociologica e morale sui costumi della società occidentale contemporanea. Io, a tanta difesa strategica, non arrivo. Anche se, per ora, non lascio il partito.