Il 24 giugno di trent'anni fa gli occhi del mondo erano rivolti a Johannesburg, dove stava avendo luogo la finale della Coppa del Mondo di Rugby fra i leggendari neozelandesi All Blacks e la squadra di casa degli Springboks. La partita si concluse 15 a 12 a favore dei sudafricani, ma ciò fu il meno. Di fatto, si trattò di un finissimo e riuscitissimo colpo di genio politico dell'allora presidente Nelson Mandela, che seppe sfruttare l'evento per favorire anche a livello sociale la non facile transizione dall'apartheid alla democrazia e alla riconciliazione. L'evento fu dipinto in un grandioso, sensibile affresco da Clint Eastwood con Invictus (con Morgan Freeman nel ruolo del Madiba), film che fu oggetto su «Cineforum» n. 493, aprile 2020, di uno speciale dal quale riproponiamo il contributo di Anton Giulio Mancino. «Non importa quanto stretto sia il passaggio, / Quanto piena di castighi la vita. / Io sono il padrone del mio destino: / Io sono il capitano della mia anima».
Con un gioco di parole si potrebbe partire da Cacciatore bianco, cuore nero. Lì Clint Eastwood non si fece sfuggire l’occasione, contravvenendo in parte al suo statuto divistico consolidato, di provare a calarsi nei panni, dietro e davanti alla macchina da presa, del regista bianco in trasferta in Africa Nera. Lo fece proprio dopo aver diretto Bird, che ruotava intorno a un protagonista afroamericano e dove aveva deciso di assentarsi da un suo film. Cosa che per lui, almeno a quei tempi, rappresentava una scelta di (fuori) campo quasi del tutto inusitata. L’unica infrazione alla regola del dover stare dentro un suo film, prima del 1988, era stata Breezy, nel 1973.
In Cacciatore bianco, cuore nero successe invece qualcosa di molto importante: anticipando un’idea e una visione del mondo veicolata dal cinema che sarebbe maturata film dopo film fino a Invictus, si ritagliò addosso un ruolo singolare. Un ruolo di transizione: quello di un altro “invincibile” o “invitto” che dir si voglia della storia del cinema americano. Non un generico John Huston, visto come modello di riferimento di una Hollywood di vecchio stampo a cui fare doverosamente e orgogliosamente riferimento. Eastwood aveva scelto di affrontare il personaggio in una chiave più specifica. Gli interessava portare sullo schermo un certo Huston. Quello alle prese con il set di La Regina d’Africa. E il set era l’Africa, dove il “suo” personaggio si rivelava più interessato alla caccia di elefanti che alle riprese del film, scoprendo a un tratto che l’Africa era altro. O, più correttamente, era il luogo deputato dell’Altro.
Non si può negare come da allora, se non da prima, la filmografia di Clint Eastwood abbia mantenuto fede a una simile intuizione. Anche quando, come in Invictus, Eastwood entra in azione non come protagonista, ma per interposta persona. In primo piano o collocandosi a margine, arrivando persino a mimetizzarsi allusivamente. Lo aveva fatto attraverso la figura del giovane poliziotto sosia Sean Devine di Mystic River, altro film chiave da lui diretto ma non interpretato. E lo fa anche in Invictus dove, memore del personaggio interpretato in un film non suo come Nel centro del mirino, dà vita a un altro personaggio a lui molto somigliante, slanciato, di poche parole e dall’aspetto poco rassicurante. Per intenderci, alla Harry Callaghan: Etienne Feyder, una delle guardie del corpo afrikaner di Mandela, che, assieme ai suoi colleghi poliziotti dal passato oscuro, deve imparare a socializzare con lo staff dei poliziotti neri addetti anch’essi alla sicurezza del nuovo capo nero.
In Invictus convergono molti segnali sparsi della filmografia eastwoodiana, a partire da Cacciatore bianco, cuore nero di cui si potrebbe parafrasare non soltanto il titolo, ma anche l’assunto, essendo stato il suo primo film girato in Africa. Per constatare come Invictus sia di fatto un atto dovuto: la parabola dell’avvenuto ricongiungimento storico tra un presidente nero e un giocatore bianco. Un presidente nero che si affida a un giocatore bianco, suggellando la prospettiva dell’anziano cineasta bianco che in un film patriottico molto sui generis elegge ad alter ego ideale, somigliante non nell’aspetto ma nell’età e nello spirito, un presidente nero. Invictus è perciò il primo film autenticamente “patriottico” diretto da Eastwood. Dove la patria propriamente intesa non è una patria geopolitica ma un spazio etico e civile. Uno spazio di riflessione e autoanalisi in cui prima di tutto viene capovolta e sviluppata sin dal titolo l’ottica di Cacciatore bianco, cuore nero.
Stavolta è l’elemento nero del binomio concettuale, il personaggio-presidente, a precedere ciò che è bianco, o che spetta al bianco secondo un nuovo gioco delle parti. Nera è la leadership del Paese, bianco lo slancio di chi gioca. In Invictus la partita funziona esattamente così: il nero muove e il bianco vince. Perché il nero è ora al comando di una nazione storicamente e istituzionalmente razzista. E il bianco può vincere solo per conto del leader nero, che si offre come leader di tutti. E agisce per conto di tutti. Mandela, in quanto personaggio eastwoodiano, è una figura consapevolmente rappresentativa. Se Eastwood ha scelto di fare un film su Mandela, lo ha fatto per rappresentare un personaggio-modello. Nella consapevolezza cioè di auto-rappresentarsi. Quindi aderisce pienamente alla strategia politica del“suo”personaggio, il quale gira per il mondo intero a farsi vedere, conoscere, ascoltare. E occasionalmente – si dice ironicamente nel film – fa tappa anche in Sudafrica.
Per il Sudafrica, Mandela investe su una partita di rugby strategica. Ma è fuori dal Sudafrica che occorre giocare la più pericolosa e difficile delle partite. Che deve necessariamente essere visibile. Serve quindi arrivare alla finale del campionato mondiale. Del resto Eastwood, che da molto tempo non racconta più soltanto l’America, guarda al mondo investendo su contraddizioni e personaggi contraddittori o controcorrente, disposti a trasformare il passato inclemente in una risorsa attiva. Mandela è l’emblema di una persona che ha affrontato il male dentro, nel perimetro angusto di una cella che si estende concettualmente a quello del campo da rugby e del campo in senso strettamente cinematografico. L’uomo-personaggio (come l’uomo-regista) insegue un’idea, l’accarezza, si lascia contagiare da quest’idea e nel contempo, in quanto leader (o regista) autorevole, contagia gli altri. In nome di questa idea il film esclude a priori i confini, secondo un principio che l’autore ha coltivato sin dai tempi di Il texano dagli occhi di ghiaccio, dove era di scena, allusivamente, il dopo Guerra civile. E dove non gli interessava tanto la Guerra civile, circoscritta al crudele prologo.
Né in Invictus punta a rievocare l’apartheid pregresso, la “morte che non dimentica”, circoscrivendolo alla sequenza iniziale, cui fa seguito un inserto fatto di immagini di repertorio in parte ricostruite nelle quali avviene il passaggio di consegne dalla realtà al film, e dove vediamo già il Mandela attore e personaggio interpretato da Morgan Freeman. La ferita non può prescindere dalla lunga e impegnativa rimarginazione, così come nel cinema opera – o potrebbe operare – quell’effetto di “sutura” dello sguardo spettatoriale che va ben al di là dell’accezione psicanalitica introdotta da Jean-Pierre Oudart. Per raggiungere un effetto terapeutico di ricucitura di uno strappo tra l’Io e l’Altro in funzione di una costruzione di un’identità aperta, plurale, non violenta.
Eastwood rende l’esperienza cinematografica una virtuale rappresentazione drammatica non fondata più sul conflitto, ma sulla necessità di superare il tradizionale modello conflittuale. E lo fa lavorando sull’assenza, anche sulla sua assenza come protagonista direttamente in campo. Lavorando sul bisogno di colmare questa assenza, sia attraverso la dialettica del campo-controcampo, sia attraverso l’intera struttura narrativa. La cui dualità, fonte di un rapporto di stretta reciprocità e interdipendenza tra inquadrature, o per estensione tra film interi (Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima), non può non riguardare la logica relazionale tra le due parti di un singolo film come Invictus, dove la prima parte ipoteca la seconda, non per ragioni di prevedibilità, ma perché le aspettative di vittoria, una vittoria che in principio manca, generano il bisogno di rendere tale vittoria un fatto concreto, effettivo, presente.
Per Mandela, attraverso Eastwood, o per Eastwood, attraverso Mandela, l’obiettivo è vincere o dimostrarsi invincibili. Lo dice del resto il titolo stesso, mutuato proprio dall’omonima poesia scritta nel 1875 da Ernest Henley, il poeta bianco per il quale la colonizzazione – come ha scritto Mario Praz nella sua Storia della letteratura inglese – è stata «il fardello dell’uomo bianco», esaltando «nei suoi versi la vita pericolosa e le battaglie della stirpe anglosassone». Un titolo che, trasferendosi sul terreno cinematografico eastwoodiano, dà conto, da solo, di come un autore tenacemente fiero del suo essere bianco possa aver ispirato un presidente nero altrettanto tenace. Ancora una volta è il gioco delle parti, di cui si inverte la polarità ma non la sostanziale idea di reciprocità o di dualità, a regolare il gioco.
Soprattutto in virtù di una asimmetria giustamente rivendicata, ma non vendicativa, tra una maggioranza numerica di neri, divenuta ora maggioranza politica, e una minoranza di bianchi, non più élite dominante. In questo nuovo ordine delle cose e del discorso sbilanciato a vantaggio della maggioranza di fatto dei neri, ex segregati nativi ed ex segreganti boeri si ritrovano a recitare sotto gli occhi del Mondo intero, su un campo di rugby, dove le quote di neri e di bianchi, sugli spalti dello stadio, sul campo e all’interno della squadra, sono un copione nuovo.
L’approccio che qui proponiamo e che può essere riassunto in un parallelismo tra un titolo reale, Cacciatore bianco, cuore nero, e uno virtuale, “Presidente nero, giocatore (e regista) bianco”, che implica una definitiva inversione del rapporto tra la componente bianca e quella nera, non si regge soltanto su un gioco di parole. O almeno non su un gioco di parole fine a se stesso, sebbene dal gioco il discorso allegorico di Invictus fisiologicamente non possa prescindere. L’autore, portando alle estreme conseguenze l’elaborazione dell’Altro a partire dal sé, ha tenuto fede a un’antica linea ascendente che dalla rappresentazione su base autoreferenziale del bianco americano (presente in quasi tutti i suoi film, da Brivido nella notte a Gran Torino) l’ha portato ad affrontare inizialmente la figura dell’afroamericano (ad esempio in Bird), anello di congiunzione tra il suo essere americano e l’essere neri negli Stati Uniti d’America.
Per giungere poi a Invictus, in cui ha scelto senza ulteriori fasi intermedie o di transizione di concentrarsi su una figura carismatica e monumentale di leader africano. Come? Rispecchiandosi, sentendo ora di potersi rispecchiare, procedendo dalla concezione del nero da parte del bianco al bianco concepito dal nero, e dal nero investito di una missione politico-sportiva. Di conseguenza non ha esitato a rievocare, ricostruire, rappresentare il crescendo di una serie di incontri sportivi, tappe di un campionato culminante nel tradizionale big match dall’esito storicamente noto, quindi scontato. Il che spiega anche cinematograficamente la sua emozionante prevedibilità.
Ma come ci si può emozionare di fronte a qualcosa di assolutamente prevedibile, se non addirittura di previsto, come già erano riusciti a fare Jonathan Demme in Philadelphia, Leon Gast e Taylor Hackford in Quando eravamo re e Ron Howard in Frost/Nixon – Il duello? Facendo sì, nel caso di Invictus, che a prevedere, letteralmente, la vittoria è Mandela, il quale, come se possedesse il dono della preveggenza oltre alla virtù della resistenza e della previdenza politica e diplomatica, riesce a trasmettere senza neanche bisogno di dirlo con parole chiare al capitano questo desiderio mistico, un traguardo possibile nella misura in cui si rende condivisibile e partecipato. Giunge così a stregare il suo ospite, la Nazione, il pianeta rendendo con atto di magia nera uno sport quanto mai violento, dove l’incontro è sinonimo di scontro e la presunta nobiltà di chi lo pratica sembra solo un’illusione da tifoso, un sistema non violento organizzato. Così come Invictus è un sistema autoregolamentato di fatti, circostanze, personaggi minori e maggiori, senza soluzioni di continuità dove Eastwood è riuscito a costruire e disinnescare un dispositivo violento ostentando per ben due volte due ipotesi di attentato, che immediatamente si rivelano azioni ordinarie (un furgone dei giornali all’opera) o straordinarie (un jet che sorvola il campo da gioco per incoraggiare gli atleti e i tifosi sudafricani) di segno opposto.